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In lode di un esploratore di profondità

In lode di un esploratore di profondità

Un’esposizione celebra al Mart di Rovereto il gallerista eccentrico Emilio Bertonati,e la sua ricerca tra i «Paradisi perduti» delle correnti figurative novecentesche, dal Simbolismo alla Nuova oggettività tedesca.


Sono molto felice che la curatrice Alessandra Tiddia abbia colto la sintesi della mia conoscenza e della mia ammirazione per Emilio Bertonati difendendo, con convinzione, il titolo Paradisi perduti che io avevo deciso per la mostra sulla attività della Galleria del Levante, che ora si propone al Mart di Rovereto. Ragioni editoriali hanno consigliato il più secco e istituzionale, nel perimetro delle manifestazioni creative della storia dell’arte, Simbolismo e Nuova oggettività che indicano i tempi e le preferenze prevalenti, e quasi sempre, in quei mondi, le riesumazioni di una mente tra le più lucide e intelligenti nel momento più oscuro e dogmatico della critica d’arte, perduta tra quelli che ora sono i fantasmi di un epoca difficile.

Il periodo di azione viva e vulcanica di un uomo colto e curioso come Bertonati fu di circa vent’anni, tra il 1962 e il 1981, quando, troppo presto, se ne andò. Sono stati anni difficili per gli artisti e la pittura, impediti o evitati (paradossale la vicenda di Gino Marotta, che rieduca la mano a disegnare, disabituata, dopo anni di metacrilati, alle soglie degli anni Ottanta); e io non potrò dimenticare che Bertonati ebbe l’estro di farci conoscere Werner Tübke.

Parimenti, per primo, riesumò il grande Cagnaccio di San Pietro, con temeraria determinazione. All’inizio degli anni Sessanta, da studioso, si sperimenta, con un percorso inverso rispetto a quello del coltivato Philippe Daverio, anche nell’attività di gallerista: prima in via Sant’Andrea a Milano (trasferendosi in via della Spiga nel 1967); poi nel 1964 a Roma in via Gregoriana; e, nel 1966, a Monaco, dove coltivava la sua voracità di collezionista.

Fu Hans Joachim Ziersch a garantirgli il primo piano di Villa Stuck che si stava trasformando in quegli anni nell’attuale Museo Villa Stuck, sempre nella capitale bavarese. Questo gli consentì di far conoscere in Italia i campioni tedeschi della Nuova oggettività, da Christian Schad, a Rudolf Schlichter, a Georg Scholz, a Franz Radziwill. Non vidi la mostra di Otto Dix (1964), ma a Milano quella di Schad (1970), rivelazione di Bertonati all’Italia. Indimenticabili le parole nella presentazione di Giovanni Testori, che definisce l’artista tedesco «il testimone più duro e ingrato ma, a conti fatti, anche il più tipico; anzi, il più tipico proprio perché il più duro e ingrato della Neue Sachlichkeit. Esistono pochi pittori che riescano a darci il senso di chiuso e di fermo, il senso che tutto, nella vita è, per dir così, in stato d’arresto, quanto Schad».

Capii subito che quel giovane corrispondeva alla intuizione del mio prezioso amico Raffaele Monti, che aveva scritto per Bertonati su Edita Broglio e sul realismo magico: ne avvertiva «inseparabili due momenti: la serietà professionale e una eccentricità innata ed estrosa». Nel mio ricordo l’impresa di Bertonati, alto e contegnoso, ha un prima e un dopo. Nel 1978, ispettore alle Belle arti prima a Venezia poi a Spoleto, incontrai al convegno su Giorgione a Castelfranco Veneto Testori che aveva proposto alla Galleria del Levante Radziwill e Cagnaccio di San Pietro; e al Festival di Spoleto Lucio Amelio che aiutai a presentare, con un finanziamento del ministero, l’allora sconosciuto Wilhelm von Gloeden, che un anno dopo arrivò alla Galleria del Levante.

Qualche tempo prima, sotto i fulmini di Renato Barilli che peraltro aveva, pur in fiero contrasto con Testori, portato a Bologna Christian Schad, avevo incrociato il grande e dimenticato Luigi Carluccio, che aveva presentato Otto Dix da Bertonati, e che ritrovai a Venezia, direttore della Biennale nel 1980, assistendolo, con Dario Durbé e Federico Fellini, nell’allestimento della mostra di Balthus nella sede, da me proposta, della scuola di San Giovanni Evangelista. Carluccio fu il critico più sensibile e curioso in quegli anni, e la sua grande mostra a Torino Il sacro e il profano nell’arte dei Simbolisti dovette stimolare Bertonati, già incamminato su quella strada. Se ne sono andati nello stesso anno.

L’originalità di Bertonati, in perfetto contrasto con i critici militanti di quei tempi, oggi trasformati in conformisti «curatori indipendenti», asserviti al mercato, era stata colta da Rossana Bossaglia, che condivideva la riabilitazione del Liberty, da Alfons Mucha a Erté: «La stessa natura di Bertonati, schiva, persino un poco misteriosa nella sua gentile nonchalance, caratterizzata da una sottile ironia, corrispondeva alle scelte a cui era arrivato. Scelte persino snobistiche, starei per dire, ma è un giudizio inesatto: parevano snobistiche ai cultori di ben assestate categorie, i quali erano infastiditi da questo sotterraneo brusio di altre forme e altri valori».

Avrei incontrato in quel tempo altri sensibili amici di Bertonati, come Roberto Tassi, a Parma; Mario de Micheli, a Milano; Osvaldo Patani, a Cortina; Vittorio Olcese, con la sua pittoresca carica di «sottosegretario» (che imprevedibilmente, dopo vent’anni, avrei condiviso), alla mirabile Villa dei Vescovi, sui colli Euganei; Daniela Palazzoli per la mostra, con Italo Zannier,Venezia 79. La Fotografia. E,più tardi, Arturo Schwarz e Jean Clair. Tutti amici, in gran parte perduti, condivisi con Bertonati per affinità di gusti e di sensibilità, per originalità di scelte, mentre il mondo dell’arte sembrava andare dall’altra parte.

Bertonati perlustrava mondi sconosciuti, e ritrovava Paradisi perduti: tale era, nella sua casa elegante in via Vivaio, la Primavera di Maximilian Lenz, manifesto della sua sensibilità estetica. Nello stesso gusto, per la prima volta, portò in Italia Fernand Khnopff, il più grande campione del Simbolismo, e Félix Vallotton; e riesumò il visionario Alberto Martini dalla Bottega di poesia del suo avo conte Emanuele Castelbarco. Mondi nuovi, artisti ritrovati. Dopo la morte di Bertonati, il suo spirito si trasferì a Brescia alla Galleria dell’incisione di Chiara Fasser, che era stata vicino a lui dal 1973 al 1981.

Nelle stanze come di una casa , Chiara rianimava i fantasmi di artisti riapparsi tra Monaco, Dresda, Darmstadt, Karlsruhe, e Vienna, come Ludwig Meidner, Richard Muller, Karl Hubbuch. È lei a scrivere quello che io e chiunque abbia avuto la fortuna di incrociare Bertonati abbiamo provato: «L’eredità più grande che mi ha lasciato è di credere in quello che si propone e di cercare – in modo indipendente dalle mode – quei talenti che non sono ancora immessi nel confuso sistema dell’arte». Ed è stata Chiara a ricordarlo per prima, nella sua galleria, l’anno scorso con un’emozionante mostra che apre a questa.

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