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Pago dunque sono. La nuova stagione dei social network

Pago dunque sono. La nuova stagione dei social network

Foto, video, post e altri contenuti esclusivi saranno su abbonamento. Le piattaforme cambiano identità corteggiando gli utenti più fedeli.


La notifica bussa da Instagram la mattina presto, durante uno stato sospeso di stordito dormiveglia: l’atleta californiano a cui tentiamo (con esiti rivedibili) di copiare esercizi per addominali e pettorali, ci lascia intendere che la pacchia è finita. O che, almeno, nulla sarà più come prima: vorrebbe 10,99 euro al mese per farci accedere a storie, post e video in diretta, oltre a inserirci in una chat per soli iscritti nella quale, visto il prezzo, sarà ragionevole chiedergli consigli legati all’alimentazione e al fitness. È uno dei tanti esempi del terremoto in corso, della prospettiva all’orizzonte: dopo esserci abituati a pagare abbonamenti per la musica e i podcast, il calcio e le serie tv, la prossima normalità potrebbe essere quella di retribuire direttamente gli influencer, o meglio i creator, per usare una definizione che li nobilita e, dunque, gradiscono tanto.

Oggi spiamo a costo zero le vite degli altri: tale voyeurismo, per essere a 360 gradi, meno vago, più profondo, avrà un prezzo di listino. Per ciascuno, secondo i suoi interessi: ricette di cucina, moda e bellezza o semplice cazzeggio, che poi è l’essenza dell’intrattenimento. Inutile girarci troppo attorno: tutte le piattaforme, inclusa la popolarissima TikTok, hanno lanciato o stanno testando meccanismi di questo tipo. OnlyFans è stato il capostipite: ha quasi 200 milioni di utenti che, solo l’anno scorso, hanno distribuito oltre 3 miliardi di dollari complessivi ai creator, soprattutto in cambio di scatti e clip a sfondo erotico. La sfida è sdoganare la formula per contenuti non vietati ai minori. «Tra influencer e follower si crea un rapporto, una sorta di relazione con una persona che non conosci davvero ma hai imparato a conoscere. È la formula dell’empatia online. Ora si tenta di monetizzarla» osserva Vincenzo Cosenza, tra i più quotati esperti di social network in Italia.

Comunque la si guardi, è una questione di soldi. Ragion d’essere dei paperoni tecnologici, che devono far quadrare i conti dei loro giganti per non innervosire gli azionisti: Meta, che nel suo cappello tiene Facebook e Instagram, ha subìto uno sfacelo in questo senso, crollando in borsa e annunciando 11 mila licenziamenti. Il denaro è pure la molla per gli influencer, che posano, pubblicano e raccomandano amenità assortite solo se ne ricavano un qualche tornaconto. Infine, ecco l’anello che mancava nella catena, ci sono gli utenti, a cui viene chiesto di spendere per quello che è sempre stato a costo zero. O meglio veniva saldato implicitamente, vendendo i loro dati in blocco o stordendoli con tonnellate di pubblicità.

A quanto pare, gli annunci non bastano più: il social network infrange il dogma della gratuità, dell’accessibilità senza corrispettivo. Non sbarra le porte a chi non sottoscrive un abbonamento, sarebbe un suicidio, una fuga di massa verso lidi alternativi, ma si stacca dal free per esplorare le frontiere del freemium. Ovvero il contenuto supplementare, riservato a chi elargisce ogni mese un tot di euro. Il lessico scelto non è casuale: Telegram ha la versione premium, che promette, tra le altre spigolature, adesivi riservati agli abbonati. Snapchat schiera Snapchat+, che ad agosto contava già 1 milione di sottoscrizioni e identifica i paganti con un’icona esclusiva accanto al nickname; Instagram, invece, attribuisce loro una coroncina con cui possono farsi riconoscere dai creator. Una spinta gentile, utile a ricordare all’influencer di turno che lo stanno sovvenzionando, dunque è il caso di rispondere a commenti e richieste. Perché mettere mano al portafogli è pure, o forse soprattutto, l’ostentazione di uno status, il fregiarsi di fronte a una community di essere oltre la norma. È un’identità foraggiata a suon di euro: pago, dunque sono.

Elon Musk, che non difetta di furbizia, non appena ha comprato Twitter è andato a solleticare questa vanità dell’uomo comune, mettendo a pagamento la spunta blu che prima era riservata a politici, personaggi pubblici, chiunque di rilevante dovesse essere protetto da furti d’identità. L’esordio di Twitter Blue, a otto dollari al mese per alcuni mercati, nella pratica è stato un mezzo sfacelo: burloni plurimi si sono finti l’account ufficiale di grandi aziende, cinguettando oscenità (l’emulo di una nota bevanda ha promesso di aggiungere droga alla ricetta). Musk ha dovuto frenare e introdurre correttivi, comunque ha dimostrato l’appetibilità del servizio. Che dovrebbe pure garantire ai tweet degli abbonati la priorità nelle ricerche e nelle risposte agli altri cinguettii: «Ma se questa logica si dovesse consolidare su Twitter come altrove» è critico Cosenza «si rischia di snaturare l’ambiente. Si finirà per dare la precedenza ai contenuti scadenti. La otterranno non perché hanno più valore, poiché arrivano da fonti attendibili o vengono premiati dall’algoritmo per la curiosità che suscitano, ma in quanto sono stati pagati».

Nel bazar dei social network tutto è in vendita, anche l’autenticità e la capacità di farsi sentire. Ammesso che, alla lunga, rimarrà qualcuno interessato ad ascoltare. n

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