Sono i Neon, new human: esseri artificiali costituiti da bit. Vivono in una dimensione virtuale ma sono autonomi, dialogano con noi, fanno mestieri precisi, diventanoi nostri migliori amici. Presto, sarà persino possibile resuscitare chi non è più di questo mondo. Vi pare folle? Quest’anno non perdetevi il film Finding Jack, in cui recita un James Dean tornato in vita…
Si prospetta una serata intensa: prima la lezione di yoga, con il maestro specializzato in contorsioni impensabili, poi il corso di lingue per allenare il vocabolario con il professore che ha in memoria tutte quelle conosciute sul pianeta, infine quattro chiacchiere con Cathy, che è simpatica e premurosa anche se è ossessionata dal riposo e si spegne troppo presto. Poco male, che si disattivi pure, tanto in tv danno il nuovo film con James Dean.
Eccolo il futuro all’orizzonte, che sa di delirio invece è molto verosimile: gli attori di Hollywood verranno resuscitati dal computer, inclusa la star di Gioventù bruciata scomparsa nel 1955, prossima a rinascere dalle ceneri. I suoi eredi sono d’accordo, la tecnologia sta facendo il resto per realizzare il film che lo vedrà tra i protagonisti, forse già durante il 2020: s’intitola Finding Jack ed è ambientato all’epoca della guerra in Vietnam.
Cathy, intanto, come gli insegnanti che la precedono nella nostra ipotetica serata avveniristica, non è un’amica reale. È un’immagine su uno schermo: di un pc, un tablet, un televisore o un telefonino, poco importa. Conta quanto sia credibile: nell’aspetto, identico a un individuo vero; nel modo di parlare, capirci, rispondere alle domande poste in maniera colloquiale. Cathy è un Neon, abbreviazione e crasi di «new human»: un nuovo umano. Un umano artificiale. Un avatar, nell’ampliamento del concetto classico: anziché essere una posticcia copia digitale di noi stessi da usare per giocare, inondare di espressioni infantili le chat, misurarsi abiti virtuali prima dell’acquisto, diventa una persona di bit dall’apparente autonomia. Dall’aspetto generato e mosso da un’intelligenza artificiale, un po’ come il redivivo James Dean. Ma con una caratteristica essenziale che la distingue dal fantasma di un attore incastrato in una trama: il talento dell’improvvisazione, la licenza della spontaneità seppure orchestrata da un computer. Il privilegio di stancarsi per finta, come Cathy, se si fa tardi. Di arrabbiarsi, offendersi, mandarci a quel paese se non la trattiamo a dovere. Di accumulare ricordi e citarli, affiancarci e assisterci nelle attività quotidiane o coabitare con noi tramite la finestra lampeggiante di un display acceso.
«I Neon saranno capaci d’interagire come farebbe un umano. E ciò include una comprensione e una reazione realistica alle emozioni. La nostra visione è che un Neon possa essere un compagno e un amico. Che abbia una sua propria storia e possa persino, lo speriamo, sostenere i bisogni emotivi delle persone» racconta a Panorama Pranav Mistry, il loro creatore. Un passato in Microsoft, un presente in Samsung, è un incrocio tra un inventore, un informatico e un dottor Frankenstein post-contemporaneo, con un’idea precisa di quando i Neon saranno tra noi: «Speriamo di lanciare il servizio sul mercato entro due anni» dice. Un tempo abbastanza lungo, un’era geologica nella tecnologia. Una cautela comprensibile: per ora le prime dimostrazioni dei Neon organizzate al Ces di Las Vegas, la principale fiera dell’innovazione del pianeta, li ha visti balbettanti e poco reattivi. Senza giri di parole, una delusione o quasi. Ma l’intento con cui sono stati pensati, l’obiettivo che inseguono, resta coraggioso e rivoluzionario. Impone di lacerare il paradigma del concierge robotico, lento fino all’esasperazione e tutt’altro che intuitivo.
I Neon, al contrario, sono sviluppati per avvicinarsi agli equivalenti digitali degli amici immaginari dell’infanzia. Stavolta visibili, per quanto ancora intangibili. E per provvedere a tutto: «Sono stati progettati per lavorare accanto agli umani e svolgere compiti che non possiamo o non vogliamo fare. Come fornire servizi di traduzione in molte lingue, essere operativi per un’intera notte, passare ore con un cliente senza diventare impazienti» conferma Mistry. Che nel più classico gioco delle parti, respinge l’accusa ovvia: i suoi umani artificiali non saranno distruttivi sul piano dell’occupazione, giacché arrivano oltre le nostre possibilità, scavalcano i nostri limiti mentali, ci risparmiano incarichi noiosi. Almeno è così che dà sollievo pensarla.
«Siamo consapevoli che la tecnologia sia inevitabile» ragiona Mistry «ma poiché proviene da macchine, ci sta rendendo tali nelle nostre interazioni di ogni giorno. Per esempio, siamo stati tutti educati a impartire comandi a un’assistente vocale. I Neon provano a mettere più umanità nei nostri inevitabili dialoghi con la tecnologia». Il senso sotteso è che parliamo di continuo con Siri, Alexa e Google, tanto vale rendere questi scambi meno gelidi, più coinvolgenti. Dando una sagoma, e indizi di personalità, a una voce.
Estremizzando il concetto, un Neon sarà una Siri «arricchita», evoluta e visibile, con una finta coscienza. Con un simulacro di sentimenti. Non informerà sul traffico o sul tempo di domani, sui risultati di calcio o gli indici di borsa, piuttosto ci farà compagnia. E saprà regalare una montagna di soldi ai suoi creatori: secondo la società di analisi Techsci Research, il settore dei soli assistenti vocali varrà nel 2024 oltre 5,4 miliardi di dollari, in vertiginoso aumento rispetto al miliardo abbondante del 2018.
La ragione? Si tratta di una tecnologia che ci attrae a dismisura: il sito Statista.com rileva che, entro il 2023, il numero di assistenti vocali attivi sul pianeta sarà pari a 8 miliardi, contro i quasi 3,5 miliardi attuali (ognuno di noi può usarne vari in contemporanea). Eppure, nella loro versione corrente, non sono nemmeno troppo strabilianti o intelligenti. Sono abbastanza tonti. Figuriamoci quanto il mercato potrà gonfiarsi se i Neon alzeranno come promettono la qualità degli aiutanti digitali, se sposeranno l’efficienza con l’empatia.
Le ulteriori implicazioni presumibili, in prospettiva, sono molteplici e in equilibrio tra il piccante e l’inquietante. Gli avatar all’apparenza senzienti, se da nicchia muteranno davvero in tendenza di massa, diventeranno i nostri confidenti, i custodi dei pensieri più intimi, sfiorando quanto preconizzato dal film Her di Spike Jonze, in cui il protagonista s’innamora di un’assistente vocale. Magari qualche start-up intrepida, non l’artefice dei Neon che è sotto l’ala di Samsung e mai si spingerebbe tanto avanti, provvederà a una loro variante erotica, capace di stuzzicarci, eccitarci. Potremo esprimere verbalmente un desiderio e sentirci rispondere senza freni e pudori, tra striptease totali e ammiccamenti personalizzati.
Proseguendo con le ipotesi, tra qualche anno potremmo giocare con la sagoma interattiva del nostro amore segreto, della fidanzata che ci ha lasciato ma non ci esce dalla testa, della collega, la compagna della palestra, la moglie del nostro migliore amico. E lo stesso a sessi invertiti oppure no, questione di gusti e di pulsioni. Basterà dare in pasto al cervellone le foto e i contenuti pubblicati sui social network dal nostro obiettivo, per averne il clone animato su un display. Un giocattolo interattivo che è lo specchio delle nostre imbizzarrite fantasie. Sembra follia, però l’intelligenza artificiale ha in parte già oggi gli strumenti per riuscirci, come dimostrano i «deepfake»: i video di personaggi di regola famosi che dicono cose gravissime, paradossali, perché quei contenuti sono finti, sono stati elaborati da un computer. La deriva è evidente, il naufragio pressoché certo: si scava per la mente un rifugio in un mondo parallelo isolato, autoreferenziale e abbastanza autistico, oltre i confini della realtà.
Sebbene il loro creatore lo escluda con fermezza («non intendiamo focalizzarci sulle storie di quanti non sono più con noi» puntualizza Mistry), un’altra azienda concorrente potrebbe invece emulare il principio dei Neon per proporci di resuscitare i nostri cari estinti. Di partire, di nuovo, dalle loro immagini, dai loro filmati, dal suono della loro voce, per trasformare i santini in sagome in movimento nel recinto di uno schermo.
Sarebbe la realizzazione di una fantasia tratteggiata nel 2013 in tv: in «Be right back», uno degli episodi più riusciti della serie di culto Black Mirror, una donna che ha perso il fidanzato in un incidente stradale, riesce a comunicare con lui tramite un’intelligenza artificiale che ne imita eloquio e sembianze. L’inconcepibile si sta accostando al possibile. Non sarà reale questo morto che parla, non avrà coscienza, memorie e saggezza del defunto originale, in ogni caso sarà qualcosa di meglio che rivolgersi a una foto immobile, incapace di ribattere, muta e per sempre. Resta da capire se aiuterà a elaborare il lutto o amplificherà la sofferenza, rallentando il distacco da chi non è più tra noi.
Di sicuro la morte non è un limite da un pezzo, l’industria dei sogni l’ha sdoganata per tornare a spremere denaro dai suoi miti. È successo anni fa con Audrey Hepburn e Bruce Lee in due spot pubblicitari, accadrà nei mesi a venire con un James Dean in versione sintetica, computerizzata. «Le nostre intenzioni sono quelle di creare l’essenza virtuale di James Dean. Non soltanto per uno, ma per molti film, e poi videogiochi e contenuti in realtà virtuale» ha detto all’agenzia Associated Press Travis Cloyd, il ceo di Worldwide XR, la compagnia che sta realizzando il progetto. «Il nostro obiettivo» ha aggiunto «è realizzare un James Dean definitivo che possa vivere su ogni mezzo». Che, «da adesso in poi, non morirà mai» come ha titolato in modo efficace il quotidiano britannico Daily Mail riportando la notizia.
Da estro artistico, la recitazione diventa atto di resurrezione. Il battesimo di una nuova carriera dopo l’estrema unzione. Il regista si avvicina a un burattinaio con facoltà che scimmiottano dio, mentre un attore tradizionale non avrà mai il carisma di un’icona che ritorna e raddoppia la simulazione, perché è finzione la storia che interpreta ed è finzione egli stesso. Sarà un successo? Sebbene la tecnologia galoppi, ci vorrà tempo affinché sia credibile. Un po’ come per i Neon. «Una performance è molto più di una somiglianza fisica» ha frenato gli entusiasmi Lilian Edwards, esperta di proprietà intellettuale. L’ha fatto in un articolo dedicato al tema dalla rivista New Scientist, che si è chiesta se i divi di bit saranno in grado di sostituire quelli veri.
Il dibattito è calzante, la terminologia appropriata. Al pari degli attori resuscitati, gli umani artificiali nascono come sostituti di quelli naturali. Come supplenti dei vivi, anche senza andare a disturbare i morti: al di là d’insegnare discipline assortite, leggerci le notizie, tradurre frasi in un’altra lingua, potranno assistere e sorvegliare gli anziani, intrattenere i bambini, lasciarci sfogare la rabbia, essere i testimoni delle nostre insicurezze, meschinità, perversioni, nostalgie, entusiasmi e paure. Quando avremo bisogno di loro, resteranno pazienti ad ascoltarci. Risponderanno, pare, con barlumi di coerenza. Saranno un antidoto alla nostra solitudine e, allo stesso tempo, la sua più grande evidenza.
