Cominciamo da una verità semplice, quasi banale, ma che banale non è affatto: l’oro della riserva nazionale non si può toccare. L’emendamento Malan, riformulato facendo riferimento ai Trattati Ue, ha fissato sì un importante punto politico: i lingotti sono del popolo italiano. Principio mai messo in dubbio. Ma a gestirlo è Banca d’Italia. Come prima. Come sempre.
Il confine della sovranità
Quel tesoro non si può toccare perché è l’ultimo bastione della sovranità nazionale, l’equivalente monetario delle mura di una città medievale. Quando tutto il resto è stato negoziato, promesso, rinviato o rifinanziato, lì si arriva. Ed è stop. Oltre questo punto non si passa.
La Banca d’Italia è la guardia di questo confine. E lo è da sempre. Ci aveva provato anche il Duce a sfondare quella porta. E, infatti, nell’inverno del 1944 un po’ di camion tedeschi partirono da via Nazionale diretti a Salò e poi a Fortezza in Alto Adige. Traffico intenso e pieno di ombre che alimentò potenti leggende a cominciare dal famoso “Oro di Dongo”. A guerra finita, quasi tutti i lingotti tornarono a Roma con i camion americani. Un incantesimo proteggeva quel tesoro? O forse la grande finanza internazionale a Washington e a Londra aveva deciso che mentre arrivava la Guerra fredda non era opportuno indebolire troppo l’Italia, privandola delle sue riserve dorate. Spiegandole così forse si capiscono un po’ di cose accadute nei decenni successivi. A cominciare dalle passioni politiche e culturali del governatore e dei membri del direttorio.
Un mandato lungo una vita
Perché il passaggio fondamentale è qui. La carica di capo di Banca d’Italia, fino ad Antonio Fazio, non aveva scadenza. Era un mandato a vita. Come il Papa. E perché? Perché bisognava garantirne l’indipendenza nelle scelte di politica monetaria. Ma soprattutto perché nessun governo, di qualsivoglia colore, potesse presentarsi con il cappello in mano e dire «ci servirebbe un po’ di quell’oro». Nemmeno per una buona causa, nemmeno con le migliori intenzioni, nemmeno con un decreto urgente.
I numeri che fanno girare la testa
Perché poi, dietro il rituale, c’è il tesoro vero e proprio. Quello che da decenni accende le fantasie politiche e puntualmente riemerge nei momenti di difficoltà. Qui non siamo più nel campo della liturgia monetaria: parliamo di 2.452 tonnellate d’oro, che ai prezzi di mercato valgono circa 272 miliardi di euro, poco meno del 9 per cento del debito pubblico italiano. Una cifra che, messa così, fa girare la testa. E infatti la testa, a molti, gira eccome.
Questo metallo non sta tutto nello stesso posto, perché la ricchezza, per definizione, non ama stare ferma e detesta essere trovata. Una minuscola parte – 4,1 tonnellate – è in monete, 871.713 pezzi, per la precisione. Il grosso invece è in lingotti, seri, pesanti, che non si spostano senza lasciare traccia nei registri e nei muscoli di chi li trasporta.
Dove si trova l’oro italiano
Circa 1.100 tonnellate riposano nei sotterranei di Palazzo Koch, in via Nazionale 91, a Roma. Altre 1.061 tonnellate sono negli Stati Uniti, tra il leggendario forziere di Fort Knox e i caveau della Federal Reserve di New York, un deposito costruito nel 1920 e rinforzato talmente tante volte da essere considerato oggi uno dei luoghi più inaccessibili del pianeta. Quote più piccole stanno a Londra e in Svizzera. E poi ci sono le 141 tonnellate conferite alla Banca centrale europea nel 1999, quando la lira salutò e l’euro entrò in scena: una sorta di cauzione per entrare nel club.
Una superpotenza silenziosa
Dentro questo universo dorato, antico e sempre nuovo, l’Italia è una superpotenza. Terza al mondo per quantità assoluta di riserve ufficiali, dietro solo a Stati Uniti e Germania. Ma – ed è qui che il dato diventa davvero interessante – prima al mondo se rapportiamo l’oro al Pil nazionale. Un primato poco raccontato, ma eloquente. Soprattutto per chi ama fantasticare di possibili crisi finanziarie nostrane.
Gli Stati Uniti possiedono 8.133 tonnellate, la Germania 3.350, poi arriva l’Italia con 2.452 tonnellate, seguita da Francia, Russia, Cina e Svizzera. Ma se guardiamo il peso dell’oro sull’economia, Roma svetta: le riserve valgono circa il 12 per cento del Pil, più di Russia (11,7), Stati Uniti (11), Francia (9) e Germania (8,5). Tradotto: un forziere enorme in proporzione alla nostra economia, ed è questo che rende l’oro italico così appetibile nelle discussioni politiche.
Le tentazioni della politica
E, infatti, nel corso degli anni, le idee su come “usarlo” non sono mai mancate. Non solo l’emendamento firmato dal senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan, che ha sancito che le riserve auree appartengono al popolo, formula suggestiva che fa sempre il suo effetto. Prima ancora qualcuno aveva fantasticato sull’impiego dei lingotti come pilastro di un fondo sovrano italiano, dove far confluire parte del debito pubblico. Nel 2005, il governo Berlusconi arrivò a far approvare una legge per trasferirlo al ministero dell’Economia, poi cancellata nel 2013. Romano Prodi, nel pieno della crisi del 2007, propose di conferire l’oro a un fondo europeo per garantire titoli comuni. I 5 stelle, con maggiore immediatezza, pensarono di usarlo per finanziare il Reddito di cittadinanza.
Ed è qui che l’aneddotica si fa irresistibile: perché resta negli annali il racconto di quando alcuni esponenti pentastellati, una volta al governo, bussarono al portone di via Nazionale. Non per una visita di cortesia, ma per vedere l’oro con i propri occhi. Volevano toccare i lingotti, verificarne l’esistenza, e pare che qualcuno abbia chiesto – con genuina incredulità – se fossero veri o solo pezzi di ferro placcati. Scene che sembrano uscite da un film di Monicelli, ma con badge, guardie armate e porte blindate. All’epoca si rise molto. Oggi meno: perché la questione dell’oro è tornata a essere tremendamente seria.
Quando l’oro fece la storia
La storia, del resto, spiega tutto. Nel 1934, negli Stati Uniti, una legge trasferì l’oro dalla Federal Reserve al Tesoro. In Italia, prima della guerra, la riserva superava le 561 tonnellate, ma nel 1940, con l’ingresso nel conflitto, era già scesa a 106. Dopo l’armistizio del 1943, gran parte dell’oro fu requisita dai tedeschi: 92 tonnellate finirono a Fortezza, in Alto Adige, e solo nel 1945 tornarono a Roma grazie agli alleati.
Poi arrivò il miracolo economico. L’Italia esportava, incassava valuta e la trasformava in lingotti. Paolo Baffi, nel 1953, intuì che l’espansione globale avrebbe reso l’oro scarso e prezioso. Guido Carli, diventato governatore nel 1960, gli diede retta. Quando il prezzo a Londra cominciò a salire, a Palazzo Koch si comprava. Così tanto da preoccupare gli Stati Uniti, che invitarono gentilmente a rallentare. Invito respinto. Nel 1973, alla vigilia della crisi petrolifera, l’Italia aveva accumulato 2.565 tonnellate.
Poi la lira entrò in crisi e nel 1976 il governo Andreotti chiese aiuto alla Germania. La Bundesbank accettò, ma pretese 543 tonnellate come garanzia. L’oro viaggiò verso Francoforte su treni blindati. Anni dopo tornò indietro. Ma non tutto come prima: su molti lingotti restò impressa l’aquila tedesca, la Bundesadler. Uno sgarbo sanguinoso, un’affermazione di potenza economica e quasi disprezzo per i soliti italiani che racconta meglio di mille saggi cosa significa dipendere dagli altri.
Ecco perché l’oro della Banca d’Italia non si tocca. Perché è memoria, sovranità, assicurazione sulla vita di un Paese. È un tesoro che fa sorridere, discutere, fantasticare. Ma che, alla fine, resta lì: pesante, silenzioso, luccicante. E terribilmente serio. Anche quando qualcuno prova a prenderlo alla leggera.
