Home » L’algoritmo ignora la fatica e il lavoro

L’algoritmo ignora la fatica e il lavoro

L’algoritmo ignora la fatica e il lavoro

Finire nel mirino delle logiche, spesso paradossali o insensate, degli algoritmi digitali significa essere cancellati e perdere di colpo anni di investimenti. In altri casi, dietro alla rimozione ci sono invidie o piccole vendette. Ma uscirne indenni, senza l’aiuto di avvocati specializzati, non è per niente facile.


Settembre 2021: sulla pagina Facebook della Ubik di Legnano (Milano) viene pubblicata una foto. S’intravede la copertina di un libro della casa editrice Taschen sul fotografo tedesco Helmut Newton, che mostra una foto di nudo artistico. Implacabile, l’algoritmo del colosso social spazza via la pagina. Ma non finisce qui: con un effetto domino, almeno una dozzina di librerie Ubik sparse in tutta Italia – da Taranto a Trento – si vedono bloccare le rispettive pagine senza alcuna ragione, se non quella di appartenere allo stesso marchio commerciale. Un danno economico gravissimo, se non fosse che tutto si risolve nel giro di qualche giorno, quando – grazie al tempestivo intervento di un importante studio legale – le pagine vengono riabilitate.

Nel 2018, 80 milioni di piccole e medie imprese in tutto il mondo gestivano una pagina su Facebook. I dati sono eloquenti: i social network sono ormai strumenti di lavoro indispensabili per una foltissima schiera di aziende e professionisti. Un successo facilmente spiegabile: grazie a questi, chiunque, da qualunque luogo, può accedere a un mercato potenziale. Ma attenzione: lavorare con i social non è semplice. Strumenti come «Facebook business manager» sono sì molto avanzati e professionali, ma utilizzarli in modo corretto richiede un investimento economico non immediatamente quantificabile e un aggiornamento costante, che tenga conto dell’evolvere delle normative di utilizzo delle piattaforme social. Oltre a questo, i rischi non sono da sottovalutare: basta un passo falso – per censori di cui si ignorano i criteri – e il lavoro durato anni può svanire di colpo, senza che nessuno spieghi il perché. I motivi per cui i nostri account e le nostre pagine possono essere cancellati sono in sostanza due: finire nel mirino di un algoritmo o di qualcuno al quale non siamo simpatici. Nel caso delle librerie Ubik tutto si è risolto per il meglio, ma cosa accade quando a incappare nel famigerato algoritmo è una persona che non ha alle spalle uno stuolo di avvocati specializzati?

È il caso di Sonia, che – dal 2015 – ha iniziato a investire sulla sua attività di professionista nel settore moda cominciando, affiancata da un social media manager, con un percorso di personal branding (cioè di promozione tagliata su di lei in quanto giovane imprenditrice), fino ad arrivare a una promozione a tutto tondo della sua attività, inizialmente solo su Facebook, poi anche su Instagram.

Nel corso di questi sei anni – con un picco nel primo lockdown, in cui i social erano rimasti l’unica opportunità per non restar tagliati fuori dal mercato – Sonia ha investito una cifra che oscilla tra 15 e 20 mila euro. Immaginate la sua reazione quando, nell’agosto 2021, la sua pagina Facebook è stata cancellata per una non meglio specificata violazione. E se credete che Sonia abbia speso molto, cosa dire del pittore e gallerista lombardo che – avviata una collaborazione con un network di social media manager – in due anni ha investito poco meno di 50 mila euro, ritrovandosi dal giorno alla sera con un pugno di mosche? Anche in questo caso, capire la ragione della censura è compito arduo.

Viene dunque spontanea la domanda: che cos’è un algoritmo? Come funziona? Quali i suoi vantaggi e i suoi limiti? Alessandro Curioni, esperto di cybersecurity, scrittore e divulgatore della Di.Gi. Academy, dice: «La definizione scolastica è: un insieme d’istruzioni che portano alla soluzione di un problema. Questo insieme viene addestrato a individuare contenuti “illegali” utilizzando grandi basi dati. Il vantaggio è la rapidità, lo svantaggio… può sbagliare».

Perché – come nel caso di Sonia e del gallerista – la censura perseguita alcune persone e ne ignora altre? «Potrei rispondere che sono i misteri dell’algoritmo, ma sarebbe una mezza verità. Spesso si tratta di persone incastrate in una rete d’odio. Alcuni utenti segnalano i loro contenuti come sconvenienti e, se sono abbastanza numerosi e credibili, l’algoritmo provvede». In effetti, dietro a molti casi di censura, come nota Curioni, il fattore umano è determinante.

Una segnalazione negativa può nascondere infinite variabili: si può stigmatizzare per reale indignazione verso un post o una foto offensivi, per antipatia, per invidia, magari per errore. Il risultato, però, è soltanto uno: una notifica da parte della piattaforma vi avviserà che avete violato una qualche norma e che il vostro profilo è stato cancellato. È accaduto così a Gianluca Prestigiacomo, ex operatore della Digos, che dopo aver postato sul proprio profilo Instagram la foto della copertina del suo libro che racconta la propria esperienza durante il G8 di Genova, si è visto recapitare questo messaggio: «Profilo eliminato». Impossibile chiarire il motivo, così come non si può capire se dietro la cancellazione ci sia stata una singola segnalazione o diverse. Di sicuro il tema politicamente scorretto ha infastidito qualcuno.

Più o meno la stessa cosa che succede a persone che si vedono «bannare» da Facebook per aver toccato argomenti legati alla pandemia, al vaccino, alla situazione politica: la delazione anonima è sempre dietro l’angolo. Ma se Prestigiacomo non aveva investito denaro sul suo profilo Instagram, diverso è il caso degli amministratori di un centro culturale (il CSA Sisma, sede fisica a Macerata) che non solo si sono visti oscurare la pagina ma a cui sono stati bloccati anche i profili personali solo per aver pubblicizzato la presentazione di un libro su QAnon, la teoria cospirazionista che si è diffusa in America. In questo caso, il danno potenziale sarebbe stato immenso: anni di lavoro, di costruzione meticolosa di una credibilità e di una rete di relazioni sfumate con la velocità di un clic. La situazione si è per fortuna risolta grazie alla grande mobilitazione pubblica, anche da parte di noti personaggi della cultura.

La domanda allora è: come può un utente medio rivalersi sui colossi social per far valere le proprie ragioni? «Agire nei confronti dei social network è molto difficile, in particolare per un privato che non sia assistito da un legale» dice l’avvocato e professore Enrico Maria Mancuso. «Non esistono strumenti – numeri di telefono, mail – per contattare direttamente i servizi di assistenza dei social network. Quando un contenuto viene rimosso o un profilo viene bloccato, solitamente all’utente è data la possibilità di proporre un reclamo, che deve essere trasmesso attraverso i moduli reperibili sulle app o sui siti dei social network, ma non è garantito un vero e proprio contraddittorio». Effettivamente è così: una «posta certificata» inviata da Panorama il 6 settembre 2021 all’indirizzo [email protected] per chiedere un confronto sul tema è rimasta lettera morta.

L’avvocato Mancuso spiega però che anche adire alle vie legali non è così semplice: «I server di molte piattaforme social sono collocati all’estero, per esempio, Instagram e Facebook in Irlanda, e le controversie devono essere risolte davanti alle autorità giudiziarie straniere; le tempistiche di queste cause sono spesso molto lunghe e il loro esito non è prevedibile: le condizioni d’uso che tutti gli utenti devono accettare (ma che in realtà sono lette da pochissimi) lasciano ampio margine di discrezionalità a chi lavora presso i servizi di assistenza per valutare quali contenuti possano essere rimossi».

Allora come tutelare l’azienda o il professionista che voglia investire sui social come strumento di lavoro? «È complicato» aggiunge Mancuso «perché non tutti gli utenti hanno la stessa influenza mediatica o economica sui diversi social network: una figura pubblica o una multinazionale sono certamente più visibili e potenti di un privato cittadino».

Insomma, una soluzione al problema ancora non c’è, così come non esiste alcuna forma di tutela per gli utenti che non abbiano le spalle coperte e il portafogli «a fisarmonica». Ecco allora che il mondo oltre lo schermo diventa ogni giorno sempre più simile al mondo reale.

© Riproduzione Riservata