Hanno appena ripubblicato un album del 1973 che è primo in classifica. La band di rock’n’roll più famosa (e longeva) non ha alcuna intenzione di scendere dal palco. E insegna un’aurea lezione: «Non usciremo di scena come gli altri».
«Ok, ti farò sapere». Nel 1976 Keith Richards è esasperato da un cronista molesto che gli chiede quanto ci mette a tirare le cuoia. Il musicista è già al vertice della classifica dei «morituri», perde pezzi, denti, ma lo spirito no, quello nessuno può intaccarlo: «Ho una notizia per voi bastardi: vi seppelliremo tutti».
Decade dopo decade, sono passati a miglior vita quasi tutti quelli che hanno accompagnato i Rolling Stones nella loro parabola convulsa, donne, amici, nemici, dottori. Ed è così che in questo 2020, anno del coronavirus, i vecchi ragazzi si son ritrovati primi in classifica con un disco del 1973, Goats head soup, all’epoca bollato come il rantolo dei cigni neri, salvo rivalutarlo anche per effetto di alcuni inediti: Criss Cross; la leggendaria Scarlet, avventurosa session con Jimmy Page dei Led Zeppelin; All the rage, per l’occasione registrata di nuovo da Mick Jagger. In aprile avevano rilasciato un singolo inaspettato, Living in a ghost town, in cui cantano a modo loro il lockdown.
No, gli Stones non sono mai stati semplicemente musica, c’è sempre stata in loro una fame di morte, di vita. Sono sopravvissuti a loro stessi e ancora non basta: «Noi non usciremo di scena come gli altri». Questa band che sbozza il blues nelle cantine di Londra quando il Muro di Berlino è ancora in costruzione si porta addosso epoche di cultura a strati. Cultura in senso lato e alto, da Truman Capote a Jean-Luc Godard, da Andy Warhol a Pier Paolo Pasolini, da Marc Chagall a Mario Schifano: folgorati dalla corrente di una band nata «più larga della vita», destinata a trafiggere le altre arti col proprio rock.
Eddy Cilia, critico musicale di lungo corso, lo sa bene: «Si prenda il primo Martin Scorsese: non aveva soldi per utilizzare nei suoi film le canzoni degli Stones, gli vennero generosamente concesse; quante pellicole, da allora, si sono adornate con quei brani?». Gli fa eco Federico Guglielmi, anch’egli nel gotha della critica rock: «La canzone Satisfaction è del 1965, ma cosa c’è di più definitivo che cantare “non godo, sono frustrato”? Mistura incendiaria di messaggio e di quel riff inossidabile». Divampano i furori del Sessantotto e la band ci scivola sopra con Street Fightin’ Man, «cosa può fare un povero ragazzo se non suonare in una band di rock and roll?». «Ribelli, pericolosi, ma fino a un certo punto: inseriti nel sistema, sia pure da sovversivi» nota Cilia.
Tra le ragioni della loro eternità c’è lo scrupolo iconografico: sono stati i primi e i migliori a coltivare una proiezione globale in costante mutazione; mentre i Beatles si stanno separando e suonano il proprio addio sul tetto della Apple Records il 20 gennaio 1969, loro portano la dimensione del concerto a livelli eclatanti. Per il tour del 1997-98, quello dell’album Bridges to Babylon, Mick Jagger e Charlie Watts, il batterista cultore d’arte e pubblicità, studiano i ponti di Santiago Calatrava e ne progettano uno «da stage»: montare uno show dei Rolling Stones ricorda uno sbarco militare e, a questi livelli, è fatale che le loro orbite s’intreccino con la politica.
Nel 1977, mentre Keith Richards rischia l’ergastolo per droga in Canada, scoppia un affaire con la moglie del primo ministro Pierre Trudeau (padre dell’attuale premier Justin), Maggie «Madcap», che perde la testa in una liaison fulminea con Ron Wood, l’altro chitarrista: il dollaro canadese crolla, il governo barcolla.
Quando cade il Muro del blocco sovietico, il presidente Vaclav Havel li vuole per un concerto gratuito nella Praga redenta: accettano, con lo slogan beffardo «Tanks are rolling out, the Stones are rolling in». Fuori i carri armati, arrivano gli Stones.
E ancora, nel 2006 è la prima volta in Cina: il regime, preoccupato, pone il veto su alcuni pezzi e Jagger sogghigna: «Chi se ne frega, ne abbiamo altri 200!». I manager del capitalismo maoista arrivano in doppiopetto e se lo stracciano durante lo show. No, non è solo rock’n’roll.
In quell’anno sono anche i primi a trasmettere in streaming un concerto, gratuito, lungo la spiaggia di Capocabana: 1,3 milioni di spettatori fisici, mentre il web collassa. A Cuba, nel 2016, altro evento «free», con la gente che piange. «Se davvero “loro” sono qui» ci si illude sull’isola, «allora la dittatura è finita e siamo liberi». Sennonché piomba, proditoria, la visita ufficiale di Papa Bergoglio.
Richards non la prende bene: «Ha una bella faccia tosta, quello: un anno che ci lavoriamo e arriva lui? Che aspetti il suo turno». Quale altro artista rock può permettersi di mettere in riga Sua Santità? Si narra che nel 1982, quando suonano a Napoli e a Torino in concomitanza con la vittoria italiana al Mundial, azzurri nel backstage, Mick emozionato come un ultrà tratti a pesci in faccia pure gli Agnelli che con la Piaggio hanno sponsorizzato il tutto. Gli sponsor, ecco un’altra colonna d’Ercole. Nessuno come i Rolling Stones ha saputo attirarli e sfruttarli. Jagger, già matricola alla London School of Economics, ama tutto questo. Spiega ancora Cilia: «Mick ha sempre visto il gruppo come un’azienda, Keith come un plotone in guerra: e ha funzionato».
Non è facile gestire una multinazionale che diversifica i profitti, 300 milioni di dollari a tournée più royalties e merchandising, in una selva di investimenti: trattare con tipi del genere non è uno scherzo e per larga parte della carriera questi pirati hanno avuto un principe a curarsi di loro, il banchiere Rupert Loewenstein. Promotone BV, società della galassia Rolling Stones che amministra le edizioni musicali, ha piazzato la sede fiscale in Olanda aprendo la strada ad altre multinazionali come quella degli U2.
Ma, oltre alle strategie finanziarie, risulta decisiva la capacità di ridefinirsi senza snaturarsi: «Sono loro» analizza Cilia «ad avere sdoganato il blues Usa e il rock’n’roll di Chuck Berry; ad avere forgiato il rock moderno, infuso in vari generi fino al reggae e al punk, cui rispondono con l’ottimo Some Girls». I due critici concordano: «Li credevamo finiti negli Ottanta, erano a un terzo del cammino». È allora che crollano, minati dalle sostanze e dagli immensi ego in collisione, e partoriscono lo sfilacciato Dirty Work. «Keith, andrete in tour?». «Chiedi alla puttana». La puttana è Mick. La Fenice rinasce però in tre anni con l’album Steel Wheels, lanciato da un tour mondiale che alza ancora la posta.
Si affidano al promoter Michael Cohn, la «baraonda di drogati» non c’è più, c’è un’organizzazione ferrea per cui gli stessi musicisti tradiscono insofferenza: a Las Vegas per poco Keith non accoltella Donald Trump prima di un concerto: nell’arena del tycoon, peraltro. Bassifondi e nobiltà, quando il solo Jagger viene fatto Baronetto, Richards reagisce con sarcasmo: «Ne ha fatte ricordare troppe alla “vecchia”». Così il musicista ha sempre apostrofato la regina Elisabetta.
Malavita, dolce vita e saper stare al mondo, nel mondo. Agli albori di internet sfornano sofisticati prodotti multimediali e cavalcano la rete; highlander che sfruttano persino il Covid. Se il virus ha fermato tutto, loro hanno «guadagnato» tempo: pubblicheranno un nuovo album dopo 16 anni e tireranno fino al 2022-23, celebrando i 60 anni di carriera e gli 80 di Mick e Keith; Charlie ne avrà due di più, il giovane Wood 76. Mick l’anno scorso ha sostituito una valvola cardiaca; Ronnie è reduce da un cancro ai polmoni; Charlie da uno alla gola; Keith da un’emorragia cerebrale che ha richiesto sette placche di titanio nel cervello.
«Incarnano l’immortalità» riassume Guglielmi. «Trasmettono ancora voglia di non arrendersi all’inevitabile». E Cilia: «La linguaccia concepita da John Pasche per la copertina di Sticky Fingers è un colpo di genio: dopo mezzo secolo resta un logo riconoscibile». Dopo Exhibitionism, la mostra itinerante che ha segnato un precedente seguito da popstar come David Bowie e Renato Zero, lanciano lo store RS n.9 Carnaby Street, nel cuore di Soho. Mick per l’occasione ha rispolverato l’anima manageriale: «Frequentavamo Carnaby Street prima che diventasse famosa, è ancora oggi un posto fantastico dove aprire un negozio». Acconti d’eternità.
Cilia è sicuro: «Non smetteranno mai, non finché uno di loro non morirà». E Guglielmi: «Reggono ancora. Certo, non sono più quell’ira d’Iddio dei tempi oscuri, ma neanche caricature di loro stessi». «Noi non chiuderemo come gli altri» sentenzia Keith per dire che sono oltre il mito, che le mode, i supporti, le guerre, le pandemie e la vita e la morte passano, ma il mondo farà i conti con loro fino alla fine del tempo.
