Il deejay campano è tra i nomi di punta della scena techno globale. In attesa di risalire in console per far ballare il mondo, dedica un brano alla sua pazza vita di maratone di musica in tutti i continenti
Alla sua vita precedente ha dedicato il prossimo singolo: Mad world, in uscita a ottobre. Un mondo matto, non per la pandemia, ma per come lo viveva lui prima del freno a mano tirato dal lockdown: «Giravo per il pianeta senza sosta, passavo da un continente all’altro come una pallina impazzita. Ero malato di frenesia» racconta Luigi Madonna da Marcianise (vicino Caserta), uno dei deejay di musica techno più apprezzati e conosciuti su scala globale. Un ex nomade a cui il coronavirus, oltre che l’agenda, ha stravolto l’orologio biologico: «Ho riscoperto la routine di svegliarmi con regolarità nello stesso letto, di pranzare all’ora di pranzo. Ho ritrovato il tempo da passare in studio, per studiare e pensare. Mi manca la vecchia vita più notturna che diurna, quasi sempre in tour, però era un vortice insostenibile. Che doveva fermarsi».
Classe 1985, cordiale, riflessivo, un filo schivo nei modi, abbastanza dark nello stile, non ha sfumato l’accento campano nonostante si sia trasferito da anni ad Amsterdam, la mecca del clubbing. Pubblica dischi per Drumcode, l’etichetta di Adam Beyer, il guru di un genere che conta milioni di appassionati tra i 20 e i 60 anni (specie in Olanda e Germania, dove non ci sono limiti anagrafici né pregiudizi verso i ritmi elettronici); si esibisce regolarmente gomito a gomito con Carl Cox, altra leggenda della dance; ha suonato di fronte a migliaia di persone dall’Australia al Giappone, dagli Stati Uniti fino al Sudafrica. Rincorrendo i fusi orari e sfidando, prima di tutto, la resistenza del suo fisico: «Amo stare in console per tre o quattro ore di fila. Una volta ne ho fatte sei consecutive al Fabric di Londra, poi ho preso un volo e sono arrivato ad Amsterdam, dove mi aspettava un set di 11 ore».
Perché si tortura con queste maratone?
Per esprimermi a 360 gradi, per costruire un racconto un pezzo dopo l’altro, mescolando generi, sperimentando sonorità per catturare il pubblico.
Perdonerà la domanda infelice: quando deve andare in bagno, come fa?
Semplice: metto un disco più lungo, giusto pochi minuti e sono già tornato.
Come descriverebbe la musica techno a chi non ne ha mai sentito parlare?
È come un battito veloce che arriva addosso senza mezzi termini. È un motivo accelerato, ripetuto più e più volte, a cui si può aggiungere qualche elemento melodico o un breve passaggio vocale. È un genere di elettronica più autentica.
Qual è quella inautentica?
L’elettronica commerciale punta forte sulla comunicazione sui social. I deejay curano in modo ossessivo la loro immagine, la gente va nei locali con una maglietta figa per farsi vedere.
Chi ascolta la techno, invece…
Cerca piuttosto una condivisione, una connessione. Si sente libero di vestirsi da Tarzan o indossare giusto un paio di mutande e un mantello, come mi capita di vedere in Australia. In pista l’individualità sparisce, è come se la gente sia capace di fondersi in un tutt’uno.
L’esatto opposto del distanziamento sociale. Una pratica da vietare con rigore durante una pandemia.
In Inghilterra, nelle scorse settimane, hanno organizzato alcuni party costruendo gabbiette per coppie o per gruppi ristretti di amici, per farli ballare assieme mantenendo il distacco dagli altri. A livello emotivo, penso sia un fallimento totale. Spero che per la primavera del 2021 la situazione sia tale da consentirci di ripartire alla vecchia maniera.
Alla techno spesso si associa il consumo di droghe. È solo un luogo comune?
Può succedere in qualsiasi locale. Rientra nella sfera delle decisioni dei singoli, non dipende certo dal tipo di musica.
Parliamo un po’ della sua storia. Luigi Madonna è un nome d’arte?
Se ne avessi voluto uno, non lo avrei potuto scegliere più diverso. Però amo come mi chiamo: Madonna mescola sacro e profano, Luigi sa di Sud Italia, mi riporta in Campania.
Una zona prolifica di neomelodici. Com’è finito a fare una musica tanto agli antipodi?
In casa, mio nonno alternava sempre gli album di Pino Daniele, Edoardo Vianello, Lucio Dalla. A 11 anni ho comprato il primo disco. Non mi bastava ascoltare i vinili, volevo metterci le mani sopra, toccarli, farli suonare in modo diverso. A modo mio. Da autodidatta ho imparato a mixare, ho iniziato a esibirmi nelle feste, poi nei locali, lentamente mi sono fatto conoscere, prima nella mia regione, da lì in Italia, infine all’estero.
Messo così lo fa sembrare un percorso quasi automatico, naturale. Cosa la rende speciale?
In ciò che faccio mi rispecchio al 100 per cento, anche se è underground, di nicchia, ricercato, non per tutti. Forse piaccio perché non mi sforzo di piacere.
