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Toto Cutugno: «Io, eterno secondo»

Toto Cutugno: «Io, eterno secondo»

LE SERIE STORICHE DI PANORAMA – SPECIALE SANREMO

In occasione del Festival di Sanremo, Panorama propone un’intervista del 1990 con Toto Cutugno e un diario surreale firmato da Paolo Rossi, il comico che nell’edizione del 1994 duettò sul palco con Enzo Jannaci. Toto Cutugno parla del secondo posto ottenuto all’edizione del 1990, collocazione conquistata per la quinta volta consecutiva. Da Ray Charles a Bettino Craxi, da Lucio Battisti a Giorgio Almirante, ecco il Cutugno pensiero.

Articolo pubblicato il 18/3/1990



Toto Cutugno: «Io, eterno secondo»


Copia più copia meno, come autore ha venduto 50 milioni di dischi. Come cantante invece è sui cinque, che sono sempre una bella cifra. Eppure a domanda risponde sicuro: «Sono un autore. La voce è solo quella di uno che canta facendosi la
barba oppure lavorando, un muratore, sempre che la categoria non si offenda». Toto Cutugno, 46 anni, ha appena finito il suo ottavo Festival di Sanremo. E per la quinta volta consecutiva è arrivato secondo, con la canzone Gli amori cantata in
coppia col grande Ray Charles. A questo infaticabile confezionatore di motivi nazionalpopolari (i suoi testi sono spesso dei serial all’italiana, in cui cita senza soluzione di continuità oltre a mamme, figli, mogli e nuore anche droghe, giornalisti, partigiani e via dicendo), tanto che i suoi motivi da non dimenticare il suo Serenata ruffiana hanno fatto nascere addirittura il neologismo «cutugnata», Panorama ha chiesto come si vive da eterno secondo.

Cutugno, le piace questa etichetta?

«Che fa, prende in giro? A perdere non ci si abitua mai».

Eppure ormai dovrebbe averci fatto il callo…

«No. Stavolta poi ci speravo proprio. Non capita tutti i giorni di avere come partner Ray Charles».

A proposito di Ray Charles: sa cosa si dice in giro? Che per convincerlo lei abbia sborsato di tasca sua 150 milioni.

«Be’, meno male, mi hanno fatto lo sconto. Io avevo sentito dire 300. Dico solo che se i soldi li avessi tirati fuori di tasca mia, sarei stato un furbo, ma avrei graffiato il mio cuore e la mia sensibilità».

Cominciamo col Cutugno cuore in mano…

«Chi mi conosce sa che sono così. Posso essere polemico, ombroso, attaccabrighe, ma certo non mi si può accusare di non essere sincero».

Bè, allora chi li ha tirati fuori i soldi per Ray Charles?

«La mia casa discografica e l’organizzatore, Aragozzini. Ma non penso che fossero molti più di 100 milioni».

Torniamo al risultato: è una cosa seria il Festival di Sanremo?

«Non bisogna esagerare. Come hanno cantato alcuni miei colleghi sono pur sempre canzonette. E quindi Sanremo è il regno dell’evasione. Va preso per quello che è. Sulle giurie non so, non mi voglio pronunciare. Certo avessimo dovuto giudicare dagli applausi e dai commenti della gente la classifica avrebbe dovuto essere un’altra. Primo Cutugno, secondi i Pooh, terza Mia Martini».

Però, prima ancora di cominciare già si festeggiava la vittoria dei Pooh…

«Non cado nella provocazione. Posso solo dire che sono arrivato cinque volte secondo e sono stato sempre battuto da un “evento speciale”. Una volta il trio, cioè Umberto Tozzi, Gianni Morandi ed Enrico Ruggeri, cioè qualcosa che non esisteva, ma era stato creato apposta per il Festival. Un’altra volta il duo, cioè Anna Oxa e Fausto Leali. Un’altra volta, Massimo Ranieri, che
mancava al Festival da 20 anni. E stavolta i Pooh, che addirittura non c’erano mai venuti. Mai una volta che sia stato battuto da un cantante normale. Non voglio fare il presuntuoso, ma che so, un Riccardo Fogli non mi ha mai preceduto».

Quindi potremmo chiamarla mister Festival di Sanremo?

«Fino all’anno scorso. Ma stavolta no. Gli amori non era la solita canzone sanremese, scritta a tavolino proprio per quei tre
minuti di gara. È sicuramente qualcosa di più originale, sentito, maturo. Tanto è vero che un certo Ray Charles ha accettato di cantarla. Ma non per soldi. L’ha scelta solo dopo averla sentita».

Visto che ci siamo, risolviamo un altro piccolo giallo. Hanno scritto che Ray Charles ha stravolto la sua canzone, ricucendosela addosso come un sarto.

«Certo che l’ha cambiata, ci mancherebbe. Mai pensato che Toto Cutugno e Ray Charles vocalmente facciano parte della stessa parrocchia. Ma chi cerca malignità e scandali a tutti i costi rimarrà deluso. Ray ha basato la sua interpretazione sul primo provino che gli avevo mandato, che effettivamente era diverso da quello che poi ho cantato a Sanremo. Ma era sempre farina del mio sacco».

Devo dire che lei mi sorprende. Precisa, ma non polemizza. È diventato dialettico. Che ne è del Cutugno sanguigno e furioso?

«Dica pure incazzoso, che è la parola giusta. Il carattere non si cambia, ma si può modificare. Io ero un gran rompiballe,
reagivo alla minima critica, mi sentivo continuamente incompreso, giudicato e attaccato. Ed era peggio. Ricordo quella volta che mi offesi per le critiche di un famoso giornalista, per cui il giorno dopo quello sul giornale andò ancora oltre e mi massacrò. Normale, anch’io avrei fatto lo stesso. Solo che il Cutugno di allora, che ti faceva? Quando l’ho rincontrato volevo prenderlo a calci nel sedere».

E oggi?

«Be’ non porgerei l’ altra guancia, questo no. Però sono più comprensivo. Diciamo che mentre prima mi credevo Dio, con la verità e la giustizia tutta dalla mia parte, oggi capisco che un 50 per cento di torto l’avevo anch’io. Ho finalmente accettato l’esistenza della libertà di stampa. Sono maturato, ma soprattutto ho smesso di prendermi così tanto sul serio».

Quindi non si è neanche arrabbiato sentendo che l’hanno accusata di avere copiato un po’ di «Gli amori» dall’ opera omnia di Lucio Battisti?

«E che critica sarebbe? Battisti è stato il più grande cantautore degli ultimi 20 anni, il re. Al suo livello metto solo Domenico Modugno. Tutti gli altri, i Baglioni, i Venditti, i Cocciante, i Carboni, o Zucchero, sono da ascoltare ma non da imitare. Battisti è il Paul McCartney italiano. Se qualcosa nella mia canzone fa pensare a lui, sa che le dico? Che ne sono fiero. È questione di atmosfere, Battisti è il re. E Cutugno non è l’ultimo venuto».

Ma questo nuovo Cutugno come giudica il vecchio?

«Con comprensione e simpatia. Sia ben chiaro che non rinnego niente. La mia più bella canzone sanremese rimane Figli del 1987, arrivata ovviamente seconda. Oggi però ho un’altra maturità. È come un giocatore che per tutta la vita ha fatto il terzino; poi arriva il nuovo allenatore e si accorge che può essere una grande mezzala».

E chi sarebbe questo allenatore?

«Forse è stata la tv. Prima con Domenica in e oggi con Piacere, Rai Uno. È stato importante. Ho allargato il mio campo, sono
diventato più filosofo e più ironico. Ma ho dimostrato di essere una persona genuina, casareccia, con cui la gente si identifica.

Insomma è la filosofia della «cutugnata».
«A proposito, come si fa? Ci vuole una strofa bella e che racconti qualcosa. Poi un inciso che scoppia. Con una frase che non si dimentica mai più e ti martella per tutta la vita. E dopo averla ascoltata tre minuti in televisione, il giorno dopo la canta tutta l’Italia».

E adesso? Niente più «cutugnate»?

«Un momento, ne farei altre cento. La “cutugnata” più famosa è L’italiano. Ho provato milioni di volte a
rifarla, ma niente. Era una cosa semplice, non banale, e le cose semplici sono le più difficili da fare. Se devi conquistare una donna puoi essere un grande parlatore e col tempo arrivare a fare breccia, ma se azzecchi le due frasi giuste che filano
subito al cuore, non c’è bisogno di aspettare. Se un politico riuscisse a carpire il segreto della semplicità da una canzonetta, diventerebbe popolare come Mussolini.

Ecco: finiamo col Cutugno politico. Che idee ha?

«Le dico i leader che ho sempre ammmirato. Una volta erano Almirante e Berlinguer: mi bastava guardarli negli occhi
attraverso il video e venivo conquistato. Oggi mi piacciono Andreotti, Craxi e Pannella, tre primattori nati, tre grandi artisti. L’ironia di Andreotti non ce l’ha neanche Arbore. Le pause di Craxi, che ti catturano e ti fanno pensare, sono un trucco da mattatore. E l’irruenza di Pannella non conosce ostacoli».

Incubo al Festival

Colpa della febbre? Cazzo, devo far la valigia. Enzo mi ha tirato dentro in questa storia del Festival… Cosa diavolo porto? Non mi devo dimenticare a casa le cose fondamentali. Per esempio il numero di telefono di Giuseppe, il mio
parrucchiere, così almeno posso chiamarlo da là e chiedergli come posso sgomberare la fronte dai capelli che mi cadono sugli occhi (problema che Pippo Baudo certo non ha). Devo ricordarmi di prendere il giubbotto antiproiettile per difendermi dalle domande cretine. Ne sparano sempre tutti così tante!

Non devo dimenticare il fondotinta da me brevettato, quello che consente di vedere bene rughe, occhiaie, grigiori, che poi sono i segni espressivi di una faccia, quelli che comunicano. Non ho mai capito perché gli artisti vogliano avere una pelle liscia, si sparano siliconi e creme. Forse non vogliono dire niente. Siccome è un sogno alla rovescia, stavolta metto in valigia un abito elegante, firmato. Me lo provo ma l’abito si affloscia, si intristisce, si autosporca. Divento triste solo a guardarmi allo specchio. Anche stavolta dovrò portare i soliti jeans, i familiari giubbotti. Loro, appena li metto, si autoesaltano.

Porco giuda, è già arrivato l’autista. In livrea? No, vestito da barbone come me. Eccoci a Sanremo: bell’albergo, stiamo quasi sempre in camera spaparanzati a leggere, bere e ridere. Usciamo solo per lo spettacolo. L’ Ariston è pieno di carabinieri, non si capisce se siano qui per Giorgio Faletti o per Franco Califano. Che bello ‘sto sogno, dietro le quinte non ci sono né guardie del corpo, né impresari. Quando ero sveglio ne ho incontrati tanti: anche i ragazzini di 18 anni, che fino a ieri cantavano all’oratorio, avevano i gorilla e il promoter. Invece stavolta ci siamo solo noi, artisti e cantanti. Si fa un bel casino, non solo Piero Chiambretti e io, che ci siamo ubriacati come pazzi e abbiamo cantato fino al mattino.

Cazzo, è il nostro turno (canto in coppia con Enzo Jannacci)! Non so com’ è, ma mi viene incontro anche nel sogno Anna Oxa. Esco sul palcoscenico. Gran brutto spettacolo: per metà la platea è vuota, e nelle poltrone occupate ci sono dei replicanti elettronici, o forse sono dei cyborg, gli omini della realtà virtuale. Probabilmente li ha noleggiati Baudo. Applaudono a comando. Dio, che applauso freddo, metallico! Per fortuna succede quello che ho sempre desiderato. Dicono sempre che Sanremo ti fa entrare nella casa degli italiani. Avranno un’antenna parabolica, chi lo sa? Morale, eccomi a casa dei signori Brambilla. «Salve, come va? Ha voglia di sentire la nostra canzone, è spiritosa…». «Certo. La canti pure. Vuol bere qualcosa?». «Grazie, ma ho fretta, devo andare in altre 13 milioni di case».

Eccomi dai signori Bianchi: «Sono venuto qui a cantarle il mio brano». «Quanto le devo?». «Ma per l’amor di Dio, niente, tanto è di Jannacci». «Ma com’è che non torna spesso?». «Perché non ho spesso delle cose intelligenti da dire». Dopo i
Bianchi, vado a casa dei signori Rossi (non sono miei parenti): «Sono venuto, qui con Enzo, a portarle un po’ di allegria». “Per fortuna. Ho avuto una giornata tremenda. Le faccio un caffè». «No, grazie, se no divento nervoso e mi mancano ancora più di 13 milioni di visite». «Mi faccia un altro pezzo». «Non posso, mi spiace, il regolamento mi dà solo quattro minuti». Qualcuno ride, altri applaudono. In una famiglia ci chiudono la porta in faccia. Una signora, candida, si rivolge a me e mi chiede: «Ma avete preso in giro persino Silvio Berlusconi, Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti?». «Sì, ma non abbiamo cominciato noi. Comunque… scusi il disturbo».

Grazie all’antenna parabolica, faccio il giro dell’ Italia. Quando torno all’Ariston i robot sono sempre lì, freddi. Dopo un po’ scende il tabellone con la classifica. Ci sono centocinquanta classifiche, Abacus, Demoskopea, Makno, Indicus,
Campionibus, Ibacus, Italicus… Un casino. Si scopre che la vera gara è fra le società di sondaggi. I cantanti non c’entrano. Vince la Demoskopea, Baudo è terzo. Lo so che non è una società, ma lui aveva fatto un pronostico e ci aveva quasi azzeccato. Rimango lì come un pirla. Anche nel sogno non capisco come faccia Baudo a sapere sempre come andranno a finire le cose… (testimonianza raccolta da Stefania Berbenni)

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