Gabriella Wilson, questo il suo vero nome, è considerata la voce più talentuosa del R&B americano. Cantante, autrice e strumentista conduce la sua battaglia contro il gossip e i social: «Le canzoni vanno oltre i follower».
Il suo primo palcoscenico è stato lo studio della Nbc dove ogni giorno va in onda The Today Show. Seduta al pianoforte, la bambina prodigio interpretò magistralmente un paio di hit di Alicia Keys. Aveva dieci anni. Qualche mese più tardi venne reclutata nel cast di un talent show della Disney, The next big thing, il secondo decisivo passo verso una carriera da superstar della musica nera. È questa la vera storia di Gabriella Wilson (24 anni appena compiuti), madre filippina e padre afroamericano, una gran voce, e Purple Rain, il leggendario album di Prince, come colonna sonora della sua adolescenza.
«Mio padre continuava ad ascoltarla tutte le mattine mentre preparava la colazione» ricorda. «Il suo hobby era una cover band con cui suonava nei club ogni weekend alternando brani di James Brown e Stevie Wonder. Sono cresciuta circondata da buona musica e da buone vibrazioni» racconta la voce più talentuosa e sensuale del R&B americano, protagonista di una carriera «silenziosa» quanto fulminante: quattro Grammy Award e un Oscar conquistato a sorpresa lo scorso aprile per la miglior canzone originale, Fight for you, colonna sonora del film Judas and The Black Messiah, la pellicola diretta da Shaka King che racconta la vita e la morte di Fred Hampton, il leader delle Pantere nere nell’Illinois.
I Grammy e l’Oscar arrivati in rapida sequenza fanno della vocalist, nata a Vallejo in California, una delle più promettenti aspiranti al club più esclusivo e inaccessibile dello show biz americano, un club noto come EGOT, l’acronimo che spetta alle star che, nella loro carriera, hanno vinto Emmy Award, Grammy Award, Oscar e Tony Award (tra i sedici che ce l’hanno fatta, Audrey Hepburn, Andrew Lloyd Webber, Whoopi Goldberg, Mel Brooks e John Legend). «L’importante è lasciar parlare la musica non cercare di vendere un personaggio. Le canzoni sono la fotografia di chi le canta. Quello che sento, le mie emozioni, i miei sogni sono tutti nelle strofe dei pezzi che incido. Un brano è per sempre, il gossip e l’hype ossessivo da social svaniscono in un paio d’ore» ripete H.E.R., ogni volta che le chiedono conto della sua ritrosia a raccontarsi e far trapelare dettagli della sua vita lontana dalle sale d’incisione e dal palcoscenico. Voleva l’anonimato totale H.E.R., tanto che sulla cover dei suoi primi due dischi aveva scelto di non mostrare il volto, ma solo la silhouette in controluce. Una scelta estrema che poi ha dovuto mediare: oggi si accontenta di apparire sempre indossando grandi occhiali da sole.
«Il tipo di esposizione pubblica che viene richiesta a chi lavora professionalmente nell’intrattenimento è enorme. Quando ho capito che le mie canzoni stavano funzionando sul serio, mi sono posta la domanda delle domande: quanto della tua vita privata e del tuo tempo libero vuoi che venga dato in pasto ai social? Davanti al bivio ho scelto la riservatezza come regola… E non me ne sono mai pentita». La musica non può ridursi a essere una gara di popolarità: è il suo motto.
In altri termini, H.E.R., insieme ad altri giovani esponenti della scena black americana sta tentando di riportare al centro del business musicale il concetto di qualità, dopo un decennio, l’ultimo, in cui le canzoni sono state considerate molto meno importanti del numero dei follower. Un approccio vintage da vecchia scuola dell’arte, lontano anni luce dagli stereotipi promozionali delle colleghe millennial che trascorrono più ore sui social che in studio di registrazione. Non a caso, ha scelto ironicamente come nome d’arte H.E.R., ovvero Having Everything Revealed (ovvero «Dopo aver rivelato tutto»). Per sua fortuna, a far parlare molto di lei ci hanno pensato cantanti dal curriculum pesante come Rihanna (con un endorsement cliccatissimo su Instagram), Alicia Keys e Janet Jackson che a vario titolo e su tutte le piattaforme social disponibili hanno incensato le sue doti di autrice e vocalist contribuendo in maniera decisiva a creare il mito della cantante che non vuole apparire mai, ma che ha talento da vendere.
Suona tutti gli strumenti con la massima naturalezza, H.E.R., perfettamente a suo agio anche seduta dietro la batteria. Il pezzo forte del suo repertorio è però la chitarra, lo strumento che l’ha accompagnata sul palco del Super Bowl a febbraio durante l’esecuzione impeccabile dell’inno patriottico a stelle e strisce, America the beautiful: «Mi ha stregato da bambina un’esibizione televisiva di Lenny Kravitz e Prince con le rispettive chitarre» spiega oggi, dopo che la Fender Stratocaster, uno dei marchi chitarristici più importanti di sempre le ha chiesto di disegnare uno strumento che da qui all’eternità sarà associato al sul nome. «Niente brillantini o colori bizzarri, ho creato una chitarra trasparente. Un tocco di eleganza e di sobrietà. Credo che ce ne sia bisogno…».
