La cantante,a 63 anni, salirà sui palchi di mezza Europa «in barba all’età, al coronavirus e alle psicosi». A Panorama racconta il rapporto col padre, la maternità da ultra cinquantenne. E poi l’evoluzione della sua musica (folk analogica) e la visione inclusiva dell’amore. «Nessuno deve venire etichettato. Siamo esseri umani e basta». E sulla sua prima tappa italiana, il 30 giugno, rilancia…
Seduta a gambe incrociate su un tavolo di vetro con la chitarra in mano. Ci accoglie così Gianna Nannini, con il piglio e l’attitudine da rocker che la contraddistingue da sempre. Sorridente, vitale, energica, in totale antitesi con l’atmosfera plumbea di una Milano desertificata dal coronavirus. E dalla paura. «O forse dall’angoscia…» racconta Gianna a Panorama. «Su questa vicenda mi riconosco nelle parole del filosofo Umberto Galimberti. La paura è un meccanismo di difesa, perché la paura ha sempre un oggetto determinato: vedo un pericolo concreto, quindi fuggo. L’angoscia, invece non ha un oggetto determinato, perché è figlia di domande come: da dove viene il coronavirus? Chi me lo può attaccare? Ecco, l’angoscia ci mette in una condizione dove è più difficile assumere atteggiamenti razionali» spiega prima di entrare nelle pieghe di una lunga storia di successi, la sua, cominciata negli anni Settanta.
Per lei tutto cambia nel 1979 grazie a una canzone, America, e alla copertina choc di California, l’album che la conteneva.
Quando ho iniziato io, il rock in Italia non c’era, c’erano i cantautori con la chitarra che si suonavano un po’ addosso. America era un messaggio molto forte, parlava di masturbazione ed era inusuale che fosse una donna a trattare quell’argomento. Per non parlare della copertina dell’album e dei manifesti per pubblicizzarlo che mostravano la Statua della Libertà con in mano un vibratore a stelle e strisce. In Italia una parte del pubblico rimase disorientata, mentre in Germania fu un enorme successo. Forse perché non capivano le parole (dice ridendo, ndr). Mi sono sempre sentita libera, fin da ragazzina quando prendevo il motorino e me ne andavo da sola nei campi in Toscana con la mia chitarra e il cestino del picnic.
Il suo primo concerto importante al Vigorelli di Milano, nel 1979, prima di Francesco Guccini, non andò benissimo…
Non ero riuscita fare le prove perché quattro giorni prima dello spettacolo ero finita nella cella di un commissariato in Grecia, a Corfù, dov’ero in vacanza con una mia amica. Mi arrestarono per aver offeso un poliziotto dandogli un… cazzottino. Ebbi paura, anche perché avevo visto da poco il film Fuga di mezzanotte, dove un turista finisce in carcere per uno spinello e ci rimane moltissimi anni. Alla fine sono stata rilasciata su cauzione grazie all’intervento di un avvocato. Non dormii per giorni e quando mi presentai sul palco a Milano, la voce faceva schifo. In più, non sentivo nulla di quel che suonava la band, urlavo e basta. Così, dopo un paio di pezzi, la gente ha iniziato a gridarmi: «scema!». Tra i pochi ad apprezzarmi, due ragazzi delle prime file che alzarono il pollice quando cantai la mia versione di Me and Bobby McGee di Janis Joplin.
L’ultimo album, La differenza, è stato registrato a Nashville in presa diretta con una band di veri musicisti: un atto decisamente controcorrente nell’era del digitale e della musica computerizzata.
Avevo voglia di incidere un album così anche se in molti mi hanno sconsigliato di farlo con argomentazioni come: ma non senti quel che passa in radio? Non ti sembra un approccio antico? Sarà antico qui da noi, ma a Nashville, il regno dell’analogico, sono i giovani a fare questa musica, a suonare davvero nei dischi. E poi, al di là di tutto, io desideravo un disco che facesse davvero la differenza. E questo la fa.
Com’è nata Fotoromanza, la canzone che nel ritornello dice: «Questo amore è una camera a gas?».
Quella frase in particolare è nata dopo un incidente domestico quando mi sono rotta un tendine schiacciando una mandorla con la mano. Un urlo bestiale e poi subito dopo, come un lampo, quelle parole… In un primo momento eliminai la canzone dal disco: aveva un problema ritmico e quella melodia mi ricordava troppo un valzer viennese. Poi, mi ritirai a Siena per una settimana in una fattoria di contadini con Conny Plank (produttore e tecnico del suono tedesco che aveva collaborato con Brian Eno e David Bowie, ndr). Trovare il ritmo dove far navigare la melodia era la sua missione, il suo scopo. E, alla fine, trovammo quello giusto per Fotoromanza.
A proposito di incidenti: cadere dal palco ed essere salvata all’ultimo istante dall’intervento in extremis di un addetto alla security. A lei è successo…
Sì, a Pesaro, alla fine di un concerto. Sono inciampata in un cavo delle luci piazzato lungo una passerella che andava verso gli spettatori. Un volo all’indietro in caduta libera di oltre due metri. Mi ricordo di aver pensato: o muoio o mi spacco tutta. E invece no, una persona della security, che aveva lo sguardo rivolto verso il pubblico, con un gesto fulmineo, ha frapposto il suo piede tra la mia testa e la transenna di metallo dove stavo per rompermi l’osso del collo. Poi, a braccia, mi ha rimesso sul palco. Un angelo. Dopo lo spettacolo ci siamo incontrati nel camerino e mi ha detto: «Ti ho salvato perché evidentemente in quel momento era destino che dovessi essere lì».
Lei lo stile di vita rock’n’roll lo ha provato sulla sua pelle.
Certamente, se per stile di vita rock’n’roll si intende la volontà di assumersi dei rischi. Se invece parliamo di droghe no, quelle non sono parte della mia vita. Soprattutto perché io non sopporto le dipendenze. La mia storia è quella di una donna libera e indipendente che non ha mai voluto essere schiava di nulla. Un conto è fare esperimenti, provare, un altro è diventare succubi di qualcosa.
Suo padre era favorevole a una carriera da rockstar?
Per nulla, ma si comportò da figo. A un certo punto, verso i 14 anni, vista la mia ferrea intenzione di cantare, mi mandò da un’insegnante di canto. Mi disse: «Prendi pure lezioni, tanto non sarai mai come Mina con quella voce che ti ritrovi».
Ai tempi della sua gravidanza è apparsa sulla copertina di un settimanale con una t-shirt che recitava God is a woman.
Mi sentivo così perché come donna ho questa enorme possibilità creativa, quella di dare una vita. Era un messaggio chiaro: le donne hanno bisogno di autostima, bisogna uscire dalla spirale del vittimismo.
Quanto conta l’autodifesa per una donna?
Penso che sia un antidoto importante contro la paura, uno strumento per aumentare l’autostima e la sicurezza in se stesse. Io pratico karatè, judo e tai chi. Da giovane giravo per Milano di notte ed era un po’ pericoloso. Diciamo che mi so difendere…
Come reagisce sua figlia Penelope al fatto di avere una mamma conosciuta in tutta Europa?
Quest’anno compie dieci anni e ha superato la fase del «che palle avere una mamma famosa». Quando la gente per strada chiede un selfie mi dice: «Dai mamma mettiti lì». Prima le dava fastidio e se ne usciva con frasi tipo: «No, la mamma è tutta mia».
Diventare mamma significa anche imparare a trascurare un po’ se stessi?
Sì certamente, tutto viene dopo. Anche le canzoni. Ricordo bene tutte le volte che Penelope mi ha interrotto mentre stavo lavorando a un pezzo.
La cito testualmente: «Non amo le dicotomie: sinistra, destra, omosessuale, eterosessuale…».
Il mio disco La differenza vuole comunicare che siamo in una nuova epoca dove una persona non può venire etichettata per il sesso e la sessualità. Siamo esseri umani e basta. Questo è quello che capisco girando per il mondo.
Chi è stato suo primo amore musicale?
Massimo Ranieri, avevo 14 anni ed ero completamente innamorata di lui e delle sue canzoni. Lo inseguivo in moto per invitarlo fare un giro con me: facevo veri e propri appostamenti. Una fissazione. Anni dopo l’ho incontrato in un negozio a Milano e gli ho detto: ti ricordi quella ragazzina che ti seguiva? Ero io. In realtà, in moto insieme abbiamo fatto solo pochi metri perché lui stava per girare un film e temeva di cadere e farsi male.
Il 30 maggio, dopo il tour in Europa, sarà in concerto allo stadio di Firenze per un evento unico e speciale. Perché proprio Firenze?
Perché è la mia Nashville, perché ho sempre amato e studiato la musica popolare, perché in Toscana abbiamo avuto un repertorio folk molto forte che però è rimasto lì. Mi sono posta la questione quando ero in Tennessee dove la scena e la cultura country sono radicate e ancora oggi hanno un mercato pazzesco. Noi invece non siamo riusciti a trasferire il nostro folk nell’attualità della musica. Se non fossi nata in Toscana non canterei così e non avrei scritto certe canzoni. Quindi, ho scelto Firenze per una festa che ha come obiettivo quello di incoraggiare i giovani artisti a inaugurare una nuova era della musica folk italiana. Sul palco con me ci sarà anche Simon Philips il leggendario batterista degli Who. Ha detto che la mia voce ha una fortissima carica erotica…