Lo schermo del computer diviso in due: da una parte Patti Smith, settantanovenne inflessibile e ieratica “sacerdotessa del punk rock”, dall’altra Due Lipa, 30 anni, diva pop universale, sex symbol e idolo di una generazione che non legge ma “scrolla”. Mondi apparentemente lontani, inconciliabili che all’improvviso si incontrano sul terreno di una piattaforma letteraria, Service95, un club per bibliofili dove parlare senza filtri di Just Kids il libro della Smith che ripercorre un frammento fondamentale della sua storia, vent’anni di sesso, complicità e rock and roll con uno dei più grandi e irriverenti fotografi del Novecento, Robert Mapplethorpe.
Quello che sorprende non è la Smith che disserta di arte e di vita ma Dua Lipa nei panni dell’intervistatrice seduta sul podio del club letterario che ha fortemente voluto fondare: consigli di lettura, podcast e conversazioni importanti (tra le tante disponibili, quelle con Tim Cook di Apple e la collega Billie Eilish), l’altra faccia di una diva contemporanea, una delle poche di cui sentiremo parlare nei prossimi anni. Perché Due Lipa, non è soltanto un brand usa e getta della musica per le masse. Come dice la Smith: «È una ragazza che se n’è andata di casa a 15 anni per realizzare i suoi sogni nella musica. È motivata, indipendente e desidera imparare senza se e senza ma». E, aggiungiamo, ha compreso in fretta che per sopravvivere nel music business di questo tempo la sensualità dirompente, i costumi di scena bizzarri e i ritornelli non bastano.
Così non si finisce nella lista delle 100 persone più influenti del mondo stilata da Time, e nemmeno nella classifica delle under 35 con un patrimonio personale che supera i cento milioni di euro. Ci è riuscita a modo suo, senza svelare mai nulla di personale o troppo intimo (è fidanzata con l’attore inglese Callum Turner) in un’era dove i famosi condividono tutto, anche gli istanti in cui escono di casa per gettare la spazzatura ben differenziata. Le star che intervista su Service95 parlano e si rivelano, raccontano aneddoti privati e legati alla carriera, lei niente, sfoggiando un’innata abilità nel tenere alto il grado di separazione tra vita privata e celebrità.
Per raccontare la disinvoltura assoluta con cui passa dal ruolo di femme fatale della dance a quello della manager, della testimonial per brand di lusso o della raffinata animatrice culturale, dice: «Sono abituata a indossare molti cappelli diversi». Ma quando si tratta di affari, usa un solo ombrello, il più protettivo che esista, quello della sua società personale attraverso cui ha ricomprato dal vecchio management tutti i diritti delle sue canzoni. Il passo dopo è stato nominare papà Dukagjin, ex cantante e chitarrista degli Oda (una band della sua città natale, Pristina, in Kosovo), manager di tutto quel che la riguarda. «La prima cosa che dovrebbe fare un giovane performer oggi è occuparsi di queste cose, il controllo del catalogo è un passaggio decisivo per continuare a fare l’artista» spiega risoluta mentre la sue canzoni, una polizza per l’eternità, continuano ad essere programmate dalle radio di tutto il mondo: Training Season, Houdini, Dance The Night (dalla colonna sonora di Barbie).
Nulla o quasi nulla si è frapposto sulla sua strada verso le zone alte delle classifiche, tranne un dettaglio che le ha fatto andare di traverso il successo dei primi singoli, ovvero un meme impietoso diventato virale in cui veniva universalmente presa in giro per le movenze delle sue coreografie, considerate troppo lente e pigre, in particolare un movimento delle spalle e delle anche da ferma, ribattezzato in rete “il ballo del temperamatite”.
Un piccolo ma increscioso incidente di percorso che non le ha impedito di sbancare le classifiche in un momento di paralisi mondiale, un attimo prima della dichiarazione del lockdown su scala globale. Davanti a lei aveva le prime copie dell’album che aveva da poco finito di registrare, un gioiello dance clamorosamente ispirato ai suoni e all’approccio della disco music dello Studio 54 e della Febbre del Sabato Sera. Canzoni potenti, da ballare fino all’alba, un concentrato di energia e positività mentre i media di tutto il mondo erano occupati a raccontare le città desertificate dalla crisi pandemica. Tirare dritto o posticipare la pubblicazione? Dua Lipa rischia e vince la scommessa. Future Nostalgia diventa la colonna sonora dei party in ciabatte in famiglia, trasforma le stanze e le stanzette di adulti e teenager in disco club immaginari, una parentesi di luce nel cuore della lunga notte del Covid.
Coincidenze storiche a parte, Future Nostalgia, come in parte il più recente Radical Optimism, è stato un colpo di genio: rimettere al centro della musica il suono senza tempo dei classici della disco music, nell’era del rap, della trap e dell’elettronica, ha sparigliato le carte, è stato un po’ come dire «la gara delle strofe in rima non è la mia tazza di tè, la lascio volentieri ad altri, io canto per farvi ballare, oggi, domani e anche fra dieci anni» racconta.
“I contain moltitudes” (io contengo moltitudini), canta Bob Dylan, in una splendida e recente canzone che cerca di fare luce sulla sua personale complessità come artista e uomo. E di “moltitudini” è ricca anche Dua, che prima di entrare nel circolo dei vip ha lavorato come hostess in un pepato locale notturno di Londra. Davanti alla porta d’ingresso selezionava uomini e ragazzi in fila per entrare. Ma non era lei a decidere, alle sue spalle c’era un addetto alla sicurezza che le bisbigliava che cosa fare. Altri tempi. A breve, il 7 giugno all’Ippodromo Ippodromo Snai di Milano la vedremo in azione nella sua zona comfort, sul palco tra coriste, musicisti, ballerine e coreografie hollywoodiane. E una piccola, grande rivincita: il ballo del temperamatite riproposto in versione integrale. Solo che adesso non ride nessuno…