Da uno scambio a distanza di note e parole con suo fratello Eugenio, è nata l’ultima canzone del rocker napoletano. Si intitola La realtà non può essere questa e fotografa i giorni sospesi in cui viviamo. Bennato, in un video lo spiega, in esclusiva, a Panorama: «Sogni, fantasia e Peter Pan sono il passato, il futuro è in mano alla scienza».
«La realtà è tutta in questa stanza, nella rete che annulla ogni distanza, la realtà è fuori dal balcone, nella rete che diventa una prigione…». Basta una strofa a Edoardo Bennato per fotografare lo scorrere del tempo e delle nostre esistenze in queste settimane di vita sospesa. Una strofa che appartiene a una canzone immersa nel presente, scritta nei giorni scorsi con il fratello Eugenio lungo l’asse che collega Bagnoli a Mergellina. «Uno scambio di note e parole a distanza, ciascuno a casa sua come prevede la liturgia di questo tempo» racconta Bennato a Panorama. «Il concetto di partenza del brano (i cui proventi saranno devoluti all’ospedale Cotugno di Napoli, ndr) era: “quello che sembra non è quello che è vero”, poi Eugenio ha avuto l’illuminazione di un testo sull’attuale condizione di prigionieri in casa. E così, da un disagio, è nata la canzone La realtà non può essere questa».
La nuova canzone richiama l’atmosfera di un suo classico di 40 anni fa, L’isola che non c’è. Concorda?
Sicurante c’è l’eco di quel brano che però era Peter Pan, fantasia, fuga, utopia. Era il sogno che non si può realizzare, un miraggio. Il nuovo pezzo è invece intriso di vita reale in una situazione di guerra dove il nostro futuro è in mano alla scienza. Oggi, come all’inizio del Novecento, quando un virologo polacco, Albert Bruce Sabin, salvò la vita a milioni di ragazzini che rischiavano di morire di poliomielite. Quando gli venne chiesto perché aveva deciso di non brevettare il suo vaccino, lui rispose: «Il senso delle mie ricerche era fare un regalo a tutti i bambini del mondo». Un grande uomo.
Scorrendo il film delle ultime settimane pensa che a livello istituzionale si potesse fare meglio e più di così?
Forse sì, ma questo che stiamo vivendo non può essere il tempo dei rimpianti e delle recriminazioni. Io sono convinto che sia a livello individuale sia a livello collettivo si migliori per necessità. Dal disagio nasce l’evoluzione. Questa vicenda drammatica ci ha insegnato, per esempio, che la salute di una singola persona è strettamente connessa alla salute di tutti. Mi pare che il tempo dell’illogica irresponsabilità sia inesorabilmente scaduto. Quando non sarà più obbligatoria la distanza sociale, vivremo sentimenti contrastanti: gioia e liberazione con un retropensiero di diffidenza e paura.
Come artista e come padre di una figlia di 15 anni che effetto le fa vedere il mondo paralizzato da una pandemia senza precedenti?
Non posso permettermi di essere pessimista. Penso a Gaia e mi impongo di guardare al futuro con fiducia e speranza. Detto ciò, sono però consapevole del fatto che, su questo pianeta, o ci salviamo tutti o non si salva nessuno. Glielo dico con una metafora: il mondo di oggi non può essere raffigurato come un sommergibile fatto a compartimenti stagni, dove la navigazione prosegue anche se entra acqua in una stanza. Il pianeta ai tempi della globalizzazione è una nave: se si apre una falla in una qualunque parte dello scafo, tutta l’imbarcazione va a fondo. Il virus non conosce frontiere.
A proposito di navi: la riporto nel 1959 quando lei e i suoi fratelli, Eugenio e Giorgio, vi imbarcaste su una nave da crociera per esibirvi come Trio Bennato…
Fu un’esperienza incredibile. Io avevo 13 anni, Eugenio 11 e Giorgio 9. Venimmo contattati dall’armatore Grimaldi che ci aveva visto suonare in un circolo di Napoli. «Se sarete promossi a scuola vi farò esibire su una nave che va da Napoli agli Stati Uniti». E così fu. Io suonavo la chitarra, Eugenio la fisarmonica, mentre Giorgio si occupava del canto e delle percussioni. Arrivammo fino in Venezuela dove venimmo ospitati a Caracas dalla televisione di Stato. Fu un successo. I dirigenti del canale ci offrirono un contratto, ma non potemmo accettare. A Napoli ci aspettava la ripresa dell’anno scolastico.
Quanto c’è di sua madre nella rappresentazione del mondo femminile che accompagna molte delle sue canzoni?
Mamma era il deus ex machina della famiglia e mio padre si fidava ciecamente. Io e i miei fratelli iniziammo a suonare perché lei ci spedì da un maestro di musica bravissimo durante i mesi delle vacanze estive. Certo, le intuizioni e il buon senso delle donne sono presenti in molte mie canzoni: da Se non ci fosse lei, a La fata, a Una Ragazza. In quei brani parlo della femminilità come una formula vincente per un’umanità proiettata verso un futuro migliore. L’istinto femminile, secondo me, riesce a salvarci nei momenti cruciali quando il cinismo e il vil pragmatismo dei maschi conduce alla distruzione…
Il testo di un suo brano del 1974, Bravi ragazzi, sembra scritto una manciata di giorni fa. Parla di coprifuoco, di un’Italia chiusa ad aspettare. A che cosa era ispirato?
Era il tempo dell’austerity, dell’aumento del costo del petrolio, del divieto di circolazione nei giorni festivi dei mezzi privati. Per limitare il consumo energetico vennero addirittura spente le insegne dei negozi e delle insegne pubblicitarie. L’ho riproposto online la scorsa settimana in un versione chitarra e voce. Perché a volte, anche dopo 46 anni, la storia si ripete…