Dalle vette delle Alpi o dell’Himalaya, ai viaggi in solitaria su fiumi selvaggi, dentro vulcani attivi, in mezzo a popolazioni primitive. L’alpinista ed esploratore italiano più celebrato, scomparso dieci anni fa, è protagonista di un libro straordinario e di una mostra. Che oggi più che mai ci fa sognare.
«Seduto sulle rive sabbiose viaggiavo con il pensiero a cavallo di un pezzo di legno portato dal fiume». Da ragazzo di pianura (padana) guarda il Po a Piacenza e vede l’Orinoco con i caimani e i boa padroni nella corrente; scruta il monte Alben dalla Val Seriana ma ha davanti l’ancora inviolato Cerro Torre, in Patagonia; calpesta la neve fradicia sulla soglia di casa a Monza e sente lo scricchiolio puro di quella del Klondike. Per il nostro più celebrato alpinista ed esploratore di sempre, a 17 anni la natura selvaggia è un miraggio letterario da concretizzare mentre l’Italia si porta sulle spalle il dopoguerra.
La «wilderness» di Walter Bonatti sta innanzitutto dentro la sua testa. «Ho sempre divorato libri d’avventura, trasponendone poi il contenuto ai luoghi a me familiari» scrive. «È così che il Po raffigurava per me il Mississippi o il Rio delle Amazzoni. Stevenson, Defoe, Conan Doyle, Conrad, Jack London, Melville sono stati i miei vangeli». Chi legge bene è sempre in vantaggio. A maggior ragione nell’Italia postbellica e rurale del Blu dipinto di blu, possibilità di scegliere fra Lambretta e Seicento, quattro televisori in bianco e nero ogni mille abitanti ma i sogni già a colori. È in questo mondo perduto che si sviluppa il mito di un ragazzo nato a Bergamo nel 1930 con l’imprinting dell’avventura: nel 1939 i suoi si trasferiscono a Monza per lavoro, ma quattro anni dopo devono di nuovo sfollare nella Bergamasca perché la loro casa è troppo vicina alle acciaierie Falck e i bombardieri americani non fanno differenza.
Oggi, in compagnia degli evangelisti (con gli scarponi come calzari), a dieci anni dalla morte lui riparte. Zaino in spalla Walter, si ricomincia. E allora rieccolo mentre scala per sfida local la parete del suo albergo-rifugio ai Piani dei Resinelli con il naso da Fausto Coppi e i calzoni alla zuava; mentre sale con la schiena abbronzata da surfer australiano verso un cimitero dei Toraja in Indonesia, e i defunti imbalsamati lo osservano da un balcone; mentre affronta la solitudine delle foreste pagaiando in canoa sullo Yukon; mentre cerca di sorprendere la tigre di Sumatra, appostato dietro un cespuglio; mentre spiega che «solo ora mi rendo conto che da due giorni vivo, penso, ragiono senza dire una parola, nell’assoluto silenzio della natura vergine. Ciò è così grande che ne sono intimorito.»; mentre lascia le impronte sul ghiaccio del monte Bianco e sulle dune del deserto della Namibia.
Una vita in verticale, il ragioniere in monopattino e il webmaster in smartworking hanno le vertigini anche solo a guardare le diapositive. Mettere tutto Bonatti in un’unica mostra fotografica e in un unico libro-catalogo è una sfida titanica, come fare una valigia dopo una settimana a New York: esplode, deflagra, non si chiude mai. Quando ti ci sei seduto sopra sfinito, scopri che è rimasta fuori (e ti guarda dal comò) la polemica del K2 con le bombole per Lacedelli e Compagnoni, il nono campo spostato. E il suo grido di pietra: «Quella notte dovevo morire, se sono vivo è solo merito mio».
Puro thriller. C’è anche questo in Walter Bonatti – Stati di grazia, sottotitolo Un’avventura ai confini dell’uomo (Solferino editore), viaggio fotografico e testuale voluto dal Museomontagna del Cai di Torino, basato sull’Archivio Bonatti, curato da Roberto Mantovani e Angelo Ponta. C’è soprattutto un uomo dal respiro antico con la modernità del suo pensiero, in armonia con la natura senza la comoda mediazione dell’ipocrisia ideologica di oggi. Bonatti non giudica, vive senza «ismi» sulle spalle. Alpinista nella prima parte dell’esistenza, poi esploratore solitario e cavia dentro un altro tempo, quello dell’uomo preistorico. Lo ha spiegato lui in una decina di libri.
«Ho fatto un esperimento su me stesso senza sapere esattamente cosa mi sarei trovato a dover fronteggiare. Nei primi anni la cosa è avvenuta in maniera istintiva: io sono sempre stato curioso, volevo vedere, capire, toccare con mano. Poi ho seguito una strada precisa: le terre remote, le regioni selvagge, l’inesplorato, le situazioni limite, i grandi ghiacciai, gli animali selvaggi, i cosiddetti uomini primitivi. Ho fatto un viaggio nella storia antica dell’essere umano, ho provato a rimettermi nei panni degli uomini che vivevano sulla Terra milioni di anni fa, e non solo con l’immaginazione».
Così il Coppi dei ghiacciai bivacca sull’orlo di un vulcano «per sentir nascere la Terra». Rinuncia alle innovazioni tecnologiche e si affida alle dotazioni tradizionali (sarà la battaglia solitaria di una vita) per ritrovare nei luoghi più impervi la memoria dell’uomo primordiale. Apprende dai Masai dell’Africa orientale a non temere gli animali selvaggi e dice: «Non so perché, ma gettandomi in acqua provavo ogni volta la certezza che coccodrilli e ippopotami mi avrebbero tollerato. Una certezza puramente psicologica, avulsa dal comune raziocinio». Lo chiama «stato di grazia», una dimensione sospesa in cui l’impossibile cessa di essere tale. Di più: è una sorta di comunione ipnotica tra l’uomo, l’ambiente e i propri istinti.
Bonatti lo sperimenta sulle vette irraggiungibili, nelle foreste impenetrabili, misurando pitoni di cinque metri, fotografando il varano gigante che ara con la coda la spiaggia dell’isola di Komodo in Indonesia. Si potrebbe aggiungere, con un pizzico di irriverenza, mezzo secolo prima della webcam di Crocodile Dundee. Ma quello è un altro mondo, la paura non fa ancora spettacolo, anzi coincide con il mistero. «Innanzitutto fa paura tutto ciò che non si conosce. Quindi faccio del mio meglio per conoscere, così riduco la mia paura».
Anzi la sgretola, come fece sul Petit Dru nel massiccio del Monte Bianco (1955) con il lancio di corda mille volte raccontato che gli salvò la vita. Ora quella via di salita non esiste più, giganteschi crolli in serie l’hanno distrutta. L’ultimo, quasi a ufficializzare un destino legato a doppio filo, avviene il 17 settembre 2011, giorno del suo funerale. In quegli anni la forza di Bonatti agli occhi della razza «di chi rimane a terra» è nell’esplorare e raccontare, fino a diventare un influencer senza Instagram. Nei Seventies gli basta Epoca – il Life italiano da 500.000 copie la settimana edito da Arnoldo Mondadori – per trasformarsi nell’icona del sogno selvaggio, in un Henry Morton Stanley alla ricerca dell’ultima sfida nella giungla. Non senza polemiche, visto che Giorgio Bocca lo definisce «un masochista celeste» proprio per la sua spasmodica ricerca del pericolo lontano dal tinello, quel «mettere a repentaglio la vita sua e di altri».
A difendere Bonatti deve scomodarsi Dino Buzzati: «Molte più lacrime vengono da cose ben più idiote dell’alpinismo, come il gusto di superare a ogni costo l’automobile che ci precede: la quale bravura, lo ammetterete, è mille volte più cretina che arrampicarsi sui picchi del Monte Bianco». Quando parte per i suoi reportage, Walter porta una Ferrania Condoretta per gli scatti, una macchina da scrivere Everest per le parole e un motto in tasca: «Se dovrò essere ricordato, spero che non sia tanto per ciò che ho fatto ma per come l’ho fatto».
Nell’aria rarefatta è tutto in quel «come», sottolineatura da sciamano in meditazione. Dal picco più alto dell’isola di Pasqua e dalle foreste del Borneo, la vita dell’uomo che pedala sui suoi sandali per cambiare la Punto dentro città congestionate gli sembra paradossale. E scrive: «Credo proprio che per svelare a noi stessi l’assurdità del vivere quotidiano non esistano punti d’osservazione migliori di questi luoghi che forse rimarranno incontaminati. Da quassù il mondo degli uomini altro non sembra che follia, grigiore racchiuso dentro se stesso. E pensare che lo si reputa vivo soltanto perché è caotico e rumoroso».
Via per sempre dalla pazza folla. Anche per questo l’eroe estremo del mondo analogico è sepolto con la compagna Rossana Podestà (conquista che ai tempi valse per i rotocalchi un ottomila himalaiano) a Portovenere fra gli spruzzi, a picco sopra la grotta dei Poeti, davanti a quello che Bonatti definiva «un mare di montagna». Il momento più terreno della sua vita è il primo appuntamento a Roma con l’attrice, affascinata dall’enigmatico viaggiatore. Il rendez-vous è all’Ara Coeli dove lei lo sta aspettando da mezz’ora; lui invece è davanti all’altare della Patria fermo come un palo. La Podestà decide di andarsene, gira l’angolo e se lo ritrova davanti. «Non sai neanche trovare l’Ara Coeli a Roma, tu saresti un esploratore?» gli dice furibonda. Poi pronuncia la stupenda dichiarazione d’amore destinata a un pantofolaio: «Se non mi trovi, almeno cercami». Non risultano selfie.
