Sedotti da teorie stravaganti, convinti da ipotesi inverosimili. Il richiamo delle «bufale», complice il web, è oggi più forte che mai. Ma dare la colpa a ingenuità e ignoranza è sin troppo facile. A fare autocritica dovrebbero essere anche gli esperti, come sostiene lo storico della scienza Marco Ciardi.
Non c’è nulla di male a chiedersi se la Terra è piatta, se il Covid esiste davvero, se i marziani ci guardano dall’alto. Farsi domande è giusto. Il problema sono le risposte. Ma nell’epoca che stiamo vivendo, caotica e imprevedibile, spiegazioni semplici ne esistono poche. Negare la complessità viene meglio. Lasciarsi tentare dal fascino naif di teorie stravaganti, da complotti che girano e si gonfiano nel frullatore del web è un modo per dare un senso (come cantava Vasco Rossi) a questa vita che un senso non ce l’ha. Se poi la scienza ci mette del suo, spiegandosi male, con supponenza, e spesso contraddicendosi, uscire dal labirinto di ciò che sembra ma non è, diventa arduo. Marco Ciardi, storico della scienza all’Università di Bologna e autore di diversi libri, di cui l’ultimo è Breve storia delle pseudoscienze (appena pubblicato da Hoepli) ci racconta come e perché l’inverosimile ci attira e ci seduce, oggi più che mai.
Nel 2021 ci siamo lasciati secoli di razionalismo alle spalle?
È un fenomeno mondiale, non solo italiano: metà della popolazione americana per esempio non crede all’evoluzionismo. Ma è una sfiducia che viene da lontano, nasce fra Ottocento e Novecento, quando il positivismo dà un’immagine della scienza come risolutrice di tutti i problemi. È lo strumento migliore che abbiamo per condividere conoscenze, ma non è uno strumento assoluto.
Oggi però qualcosa è cambiato, non crede?
Bufale e fake news ci sono sempre state nella storia, e anche di clamorose, certo oggi la velocità della rete ha creato la tempesta perfetta. Creazionisti o novax non vanno online per informarsi, bensì a cercare ciò che alimenta le loro idee. È la negazione dello spirito critico.
Spesso però la scienza si atteggia a club elitario, e questo non aiuta a renderla «simpatica», non crede?
È così. Ma il suo crescente distacco rispetto alla società è anche dovuta a un’iperspecializzazione eccessiva, fino ad arrivare a punti paradossali, cioè che gli stessi scienziati possono esprimere opinioni pseudoscientifiche quando affrontano argomenti che non rientrano nelle loro competenze.
In rete, in effetti, basta farsi un giro per trovare esperti di botanica che negano l’utilità dei vaccini…
Purtroppo questa iperspecializzazione è un fenomeno inevitabile. Inoltre a scuola le scienze vengono presentate solo come insieme di formule, nozioni, non si parla mai della storia delle controversie, delle scoperte, di quanto è complicato arrivare a dei risultati.
Non si insegna il metodo scientifico?
Purtroppo non si insegna come funziona nei suoi meccanismi. E che qualsiasi ricerca o teoria dev’essere poi sottoposta al giudizio della comunità scientifica. Chi ancora oggi fa confusione fra un alchimista e un chimico non capisce che nella scienza l’opinione individuale non conta.
Oggi, invece, uno vale uno anche quando si parla di virus…
Ieri sera vedevo in tv uno di questi dibattiti imbarazzanti sul Covid in cui vengono invitati personaggi che pensano di avere scoperto La Cura. Ho resistito 10 minuti, ma ho fatto in tempo a sentire un medico che diceva che con il suo metodo nessuno moriva di Covid, e un altro che gli rispondeva che erano stupidaggini. Ma nella scienza ciò che dice o pensa il singolo non conta. Conta l’autorevolezza.
Che colpe o responsabilità hanno gli «esperti» per questa diffidenza generale?
Non tutti sanno fare comunicazione, e dovrebbero evitare di accapigliarsi in televisione. L’arroganza che a volte mostrano dipende anche da una convinzione che si è sviluppata nei decenni, di stampo positivista: ossia, la scienza è questa e voi la dovete capire.
Ma la scienza è quella, alla fine…
Non è così semplice, però. Prendiamo l’astrologia, per esempio, una pseudoscienza ma con una sua dignità di disciplina storica, anche se senza valore. O consideri la teoria della deriva dei continenti, per decenni molti l’hanno considerata insensata. La scienza è anche questo, spesso ha bisogno di tempi lunghi per arrivare a certezze condivise.
Durante la pandemia si è sentito di tutto e il suo contrario, con il risultato alla fine si era quasi autorizzati a credere a qualsiasi cosa. Era davvero inevitabile?
In parte è così. Stiamo lavorando in tempo reale su un virus sconosciuto, facile che ci siano scontri fra scienziati. Il problema è che poi le controversie vanno in televisione e si creano le tifoserie, i fan di Zangrillo, quelli di Crisanti… La maggior parte dell’opinione pubblica non ha gli strumenti per distinguere chi parla bene o male, perché non vengono forniti dalla scuola. Per capire la pandemia non avremmo bisogno di essere virologi, ma di conoscere come funziona la scienza.
Spesso neppure noi giornalisti lo sappiamo, se vogliamo fare un po’ di autocritica…
Se un medico dice che il virus è morto, i giornalisti dovrebbero ribattergli: «Scusi, ma lei sulla base di quali evidenze fa questa affermazione, su quale rivista scientifica ha pubblicato i dati?».
Fra le pseudoscienze oggi più diffuse, qual è a suo avviso quella che fa maggiori danni?
A me non fa paura una pseudoscienza in particolare, bensì l’incapacità di padroneggiare gli strumenti con cui possiamo capire ciò che succede. Poi, certo, mi preoccupa molto il fenomeno di chi nega il virus e la pandemia, sono continuamente a fare discussioni con amici, anche con colleghi.
Colleghi?
Diciamo che mi capita di sentire ragionamenti complottisti anche da persone laureate in fisica o in archeologia.
Un concetto invocato da chi crede in teorie alternative è «il confronto»: dare lo stesso spazio a chi dimostra il cambiamento climatico, per esempio, e a chi lo nega. È sbagliato?
Alla base c’è un grande fraintendimento su che cos’è la democrazia. Che non significa che ognuno va in giro a dire la sua opinione e questa deve essere per forza accettata. Nella scienza uno non vale l’altro: dietro a un ricercatore che afferma una cosa c’è la maggior parte della comunità scientifica, dietro l’altro c’è solo se stesso.
Perché le teorie del complotto ci seducono così tanto?
Ci sono studi decennali di psicologia cognitiva che ci spiegano che il nostro cervello è tutt’altro che una macchina perfetta. E tutti noi, anche io e lei in questo momento, siamo soggetti a pregiudizi che influenzano il nostro pensiero. La scienza nasce proprio per limitare questi pregiudizi, poi però c’è l’emotività. Il complottismo attecchisce perché mentre la scienza ha bisogno di tempo e fornisce risposte complesse, noi vorremmo risposte semplici e immediate.
I cospirazionisti, che comunque si inventano complotti assai complicati, amano dire che bisogna sempre mettere in discussione le certezze. In un certo senso hanno ragione?
In partenza, tra lo scienziato e il complottista non esiste una differenza netta. Porre in dubbio le certezze acquisite è uno dei valori fondamentali della scienza. Lo scienziato è uno scettico sistematico, la conoscenza va avanti proprio così.
Quindi è lecito chiedersi se siamo davvero stati sulla Luna?
Certo. Poi uno inizia a dire: nei progetti Apollo erano coinvolti scienziati, astronauti, tecnici, militari, giornalisti, circa 500 mila persone hanno lavorato in questo ambito; c’erano anche i russi, i primi a complimentarsi con gli Stati Uniti. Ecco, se uno pensa che sia più probabile credere a un complotto mondiale piuttosto che a tutto ciò…
La Nasa di recente ha desecretato i suoi dossier sugli Ufo, e questo ha scatenato tutti quelli che credono agli alieni.
Io sono socio del Comitato italiano di studi ufologici, il Cisu.
Sta scherzando.
Le assicuro che sono più scettici di me. L’ufologia nasce per rispondere a fenomeni che hanno iniziato a verificarsi in massa negli anni dal 1947 in poi. Il problema è che quel «potrebbero essere oggetti che vengono dallo spazio» dopo un po’ è diventato «gli oggetti che vengono dallo spazio». Sugli Ufo, come su ogni altra cosa, il rischio è di trasformare un’idea di possibilità in una cosa probabile. La Terra potrebbe essere piatta? Potrebbe, ma abbiamo infinite evidenze che le cose non stanno così.
Chiedersi però se il Covid è nato in laboratorio ha un senso, non crede?
È un dubbio che ha successo perché propone una spiegazione semplice. Si individua un nemico, un avversario. C’è una certificazione del tipo «ecco, hai visto?». E poi c’è sempre questa idea, tipica delle pseudoscienze, che le cose della natura sono buone, mentre quelle artificiali sono cattive.
In fondo, è anche un pensiero consolatorio: se lo abbiamo fatto noi, basta non rifarlo…
Appunto. È difficile accettare l’idea che la natura sia un sistema complesso dove ciò che accade sia dovuto al caso o alla complessità. Farsi domande va benissimo, qual è il problema? Che il complottista non accetta il sistema di valori e regole del gioco che la scienza ha costruito in 300 anni per stabilire quando un’argomentazione ha senso oppure no. Qualsiasi ragionamento con un complottista è impossibile, dirà sempre «no, io non credo a queste spiegazioni».
Si è sempre detto che l’Italia è uno dei Paesi più a digiuno di cultura scientifica. Condivide?
Vero, in più abbiamo l’aggravante di decenni di filosofia umanistica che ha negato qualsiasi valore culturale alla scienza, concepita solo come pragmatica. Siamo un Paese al di fuori della società della conoscenza, con un modello di sviluppo che si basa più che altro su soluzioni improvvisate. Dovremmo fare una seria riflessione su come vogliamo diffondere il sapere. Se la nostra mente non viene formata in maniera corretta nelle prime fasi, poi diventa dura. Anche perché dopo un po’ la nostra capacità di ragionamento viene meno.
E poi il fascino del mistero, dell’irrisolto, non morirà mai…
Ma la scienza senza immaginazione non va da nessuna parte. Fantasia e creatività possono e devono avere spazio. Basta aver ben chiari quali sono i confini. Ed è una battaglia che deve fare ogni generazione. Altrimenti in tutti i campi, nelle scienze come nella politica, fanatismi e irrazionalismi emergeranno perché, semplicemente, fanno parte della nostra natura.
