Home » San Francesco: il ribelle reazionario

San Francesco: il ribelle reazionario

San Francesco: il ribelle reazionario

Del poverello di Assisi abbiamo un’immagine edulcorata: una sorta di figlio dei fiori ante litteram, che parlava agli animali, amava la natura, rifuggiva la guerra. Non è falsa, ma incompleta e superficiale. In realtà, come spiega in uno splendido libro Franco Cardini, di fronte al suo tempo «moderno», il religioso predicava il ritorno alle origini e ai valori del passato. E la sua «povertà» era rinuncia consapevole alla volontà di potenza.


E se invece fosse stato un reazionario? Certo, forse è ingiusto e un filo scorretto giudicare un personaggio storico utilizzando le categorie del nostro tempo, soprattutto quelle politiche. Tuttavia la questione è estremamente intrigante, e forse vale la pena di forzare un po’ la mano: l’uomo di cui ci accingiamo a parlare, dopo tutto, non è semplicemente una figura collocata da qualche parte nel passato. No: è ancora vivo, cammina in mezzo a noi, può ispirarci, parlarci e farci da guida nel mondo oscuro che si schiude davanti ai nostri occhi.

Siamo abituati a pensare a San Francesco d’Assisi come a una sorta di Gandhi ante litteram. Lo stereotipo ce lo restituisce come uno strano santo figlio dei fiori che ama la natura, parla con gli animali e rifiuta la guerra. Questa immagine, come sappiamo, si presta fortemente all’utilizzo politico, mondano. Non è del tutto falsa, ma ci offre un Francesco dimezzato, ridotto alla sua dimensione terrena.

È un’immagine superficiale, che adesso possiamo sgretolare per ritrovare il poverello d’Assisi nella sua intensa integrità. Dunque torniamo alla domanda iniziale: e se fosse stato non un progressista, un fricchettone, una specie di comunista, bensì un reazionario? Il tema lo pose il celebre storico Jacques Le Goff, che fece notare come il francescanesimo rappresentasse, nel suo tempo, un «ritorno alle fonti».

«Non bisogna infine dimenticare» scriveva Le Goff «che il francescanesimo è reazionario. Al cospetto del XIII secolo, moderno, esso rappresenta la reazione non di un disadattato come Gioacchino o come Dante, ma di un uomo che vuole, di contro all’evoluzione, salvaguardare valori essenziali».

Ecco il punto centrale. Nel XIII secolo comincia a srotolarsi l’arazzo elaborato della società mercantile. Nasce, quasi con un’esplosione, il capitalismo. I mercanti che si muovono per l’Europa fanno di quel tempo l’era del denaro. Nei secoli successivi – nel Seicento principalmente – il culto del denaro si fonderà all’individualismo, in Inghilterra la difesa della proprietà privata porterà allo sviluppo del liberalismo.

Nemmeno troppo lentamente, insomma, il mondo cambia centro. Non è più il «tempo della Chiesa», ma quello «del mercante» a scandire le giornate. Regna sovrana quella che il poeta T.S. Eliot definirà «legge del profitto e della perdita». Il denaro liquido darà forma al mondo liquido, anzi per l’esattezza il denaro corroderà il mondo solido dei valori, dei limiti e dei confini, sciogliendolo nel mare tempestoso della globalizzazione.

San Francesco, in questo senso, è straordinariamente anti-moderno. Rappresenta un’alternativa radicale al modello attualmente dominante, che oggi ci viene proposto come l’unico possibile. È con questo sguardo – forse troppo politico, ma i lettori ci perdoneranno la debolezza – che leggiamo lo splendido volume di Franco Cardini appena pubblicato da Laterza e intitolato L’avventura di un povero cavaliere del Cristo. Francesco, Dante, Madonna Povertà.

Scrive Cardini, uno dei maggiori storici europei viventi, che Francesco «fu veramente un grande ribelle contro il suo tempo, segnato dalla nascita dello strapotere del denaro e dell’intellettualismo: un tempo in tal senso profondamente moderno». Ribelle, dunque. Reazionario, almeno un po’ (nel senso che reagì alla modernità che andava affermandosi). E, soprattutto, legato ai valori cavallereschi.

Sì, sembra incredibile. Come si può paragonare il poverello vestito di una povera tunica con un cavaliere splendente che brilla nell’armatura? Come si fa ad avvicinare il santo che a Dio dona tutto se stesso con un combattente con la spada macchiata di sangue? Lo spiega Cardini: «L’adesione sia pure parziale, condizionata e in gran parte metaforica agli ideali cavallereschi fu per lui […] una forma di reazione al trionfo della ricchezza e dei beni materiali amati in sé e per sé nonché della scienza sempre più fiduciosa nella ragione recuperata dagli antichi […] e sempre meno aderente sia alla Parola evangelica sia alle tradizioni nelle quali continuava a vivere il retaggio solidaristico di una cultura che ancora non conosceva la future lacerazioni».

A Panorama, Cardini spiega che «nell’esperienza cavalleresca Francesco trova quello che la modernità nega. L’eternità, la centralità dell’idea di Dio, il ridimensionamento dell’ego». Non si può dire che Francesco odi la ricchezza, o i ricchi. Questa è un’idea che oggi talvolta ritorna, viene utilizzata per amplificare o addirittura snaturare certe affermazioni di Bergoglio (che dal poverello riprende non a caso il nome) sulla giustizia sociale.

Francesco d’Assisi, però, «non ha mai pensato di impedire a chicchessia di fare soldi. Propone una via, che è la sua via, la quale prevede la scelta della povertà assoluta. Ma la ricchezza non viene condannata in quanto tale, semplicemente non è la via francescana. Anzi Francesco è consapevole che possono esistere infinite altre vie che portano a Dio. Lui ha la sua strada ma non la impone a nessuno».

C’è, in Francesco, una dimensione avventurosa, di ricerca, che può ricordarci i valorosi cavalieri che tutto rischiarono pur di trovare il Graal. Che non è un bene prezioso, un gioiello, ma la luce dello spirito, la sapienza divina che ammorbidisce il cuore. Chi si getta in questa avventura – cavaliere o santo che sia – deve sapere che dovrà fare i conti con i suoi limiti e, ovviamente, con il limite più spaventoso, quello che riguarda tutti gli uomini: la morte.

Per il cavaliere, come per Francesco, «la morte non è una ossessione» dice Cardini. «C’è come un annullamento del rito di passaggio: la presenza della morte è costante, essa è una compagna sulla soglia. La morte è un cambiamento, per gli uomini di quel tempo. Per noi non è più così, poiché abbiamo eliminato il sacro».

Questa forse è la più grande lezione che oggi possiamo assorbire studiando la vita del santo o leggendo le pagine avvolgenti di Cardini. Possiamo vedere uno spiraglio di luce, sapere che può esistere un’altra strada. Certo, nel mondo di oggi percorrerla è diventato quasi impossibile. «San Francesco viveva in una società barbarica, violenta, a volte anche assassina. Ma che aveva il senso della misura e del limite, che noi abbiamo perso. Al tempo di Francesco, in qualche modo, si poteva scegliere: se ci si voleva salvare, si sapeva cosa fare. La società era pagana e peccatrice, anche, ma spiritualmente cristiana. Chi sbagliava sapeva di sbagliare».

Attenzione, però. La via francescana non prevede esclusivamente la povertà materiale. Riflettendo sulle parole di Cardini, si arriva a pensare che la povertà totale sia, in fondo, una scoperta del limite. San Francesco inventa il presepio, dove troviamo l’immagine del Bambino nella culla: una nascita che ha molte analogie con la morte. «Il Bambino nella culla è come se fosse già nel sepolcro. È totalmente impotente, ha bisogno di tutto, è in balia degli altri. Questa è la povertà: la mancanza di potenza».

La volontà di potenza, la sopraffazione del prossimo è invece ciò che regola il mondo di oggi. Riscoprire la povertà significa rendersi conto dei propri limiti, far dono di sé e dunque ritrovare la dimensione comunitaria, che è appunto basata sul munus, sul dono: qualcosa di antico, difficile e bellissimo. Alla fine, ritorniamo a quell’interrogativo: e se fosse stato un reazionario? Beh, se lo fosse stato, avremmo un motivo in più per amarlo.

© Riproduzione Riservata