Grazie a un «esperimento sociale» che compie dieci anni, minori che appartengono a famiglie criminali sono stati allontanati e messi sotto tutela dello Stato. E l’iniziativa è diventata una proposta di legge.
Il destino nel nome. Lo stesso destino atroce. In carcere o morti ammazzati: prima i padri, poi i figli. Per questo, almeno 100 bambini sono stati allontanati dalle famiglie mafiose d’origine e messi sotto tutela dallo Stato, attraverso il progetto «Liberi di scegliere». E, dieci anni dopo i primi casi, la sperimentazione è diventata una proposta di legge, finita all’attenzione del ministro della giustizia Marta Cartabia poco prima della crisi di governo: il simbolo di una strategia in grado di sottrarre davvero questi adolescenti a un futuro già scritto o servono altre armi per sconfiggere le mafie dentro casa? «Finito il percorso, una buona parte dei ragazzi ha deciso di non tornare nella propria terra» certifica Roberto Di Bella, il presidente del Tribunale per i minorenni di Catania che, nel 2012, ha ideato la misura, quando era in servizio a Reggio Calabria, stanco di dover giudicare «coloro che avrebbero potuto avere una vita diversa».
Da qui la decisione, al di là del carcere e delle sentenze, di dare loro una «via di fuga». «E questo mediante un orientamento della giurisprudenza poi esteso a Napoli, Milano, Palermo e Catanzaro da altri magistrati» dice Di Bella, che ha disposto il maggior numero di provvedimenti di allontanamento. Uno dei casi di questo «esperimento sociale» è stato Giovanni, ultimo discendente di una famiglia criminale che si è ritrovato a diventare amico di un imprenditore nel mirino del racket. «Gli ha permesso di cambiare punto di vista, e quindi atteggiamento» spiega lo psicologo Enrico Interdonato, che lo ha accompagnato in questa esperienza al di là dello Stretto, nel trasloco da Reggio Calabria a Messina, spingendolo lontano. Il giovane oggi vive e lavora in Nord Europa, ed è padre di un bimbo fuori dal circuito della criminalità organizzata.
Rimasta sola a 13 anni dopo l’arresto dei parenti e l’omicidio della madre, Paola invece si è iscritta a Giurisprudenza per diventare pubblico ministero. Un altro ragazzo si è affermato come chef in Sardegna; e «altri sei si sono fidanzati nei luoghi delle loro nuove attività» aggiunge Interdonato che, per conquistarne la fiducia, li ha seguiti persino in discoteca. Spronato dalla mamma, Antonio, che da piccolo voleva diventare un boss (come il nonno, ucciso, e come gli zii, che hanno ammazzato il killer di suo padre), ora pratica arti marziali e ha nuovi interessi. «Non sempre va altrettanto bene» ammette Di Bella, consapevole che l’esito non è scontato. Su dieci ragazzi, uno o due hanno ripreso a delinquere. Su 100 mamme, più del 30 per cento ha però seguito i figli, facendo la differenza. Il giudice ne conserva le lettere di ringraziamento: una parte le ha pubblicate nel libro Liberi di Scegliere (Rizzoli, 2019), scritto con Monica Zapelli.
«Mio marito è stato condannato per mafia, così come mio cognato e mia suocera. E mio suocero per omicidio. Sono stata condannata anch’io in primo grado per fatti di mafia» è il racconto di Lucia, che ha scontato la sua pena e ora è alle prese con il divorzio dal coniuge. «Ai ragazzi non chiediamo mai di rinnegare i genitori, vogliamo solo mostrare che fuori dagli spazi chiusi delle loro case esiste un altro mondo» rimarca Di Bella, che è stato anche il primo a siglare un protocollo con l’Inps per togliere il reddito di cittadinanza alle famiglie che non li mandano a scuola: 700 le segnalazioni a Catania, una sessantina le pratiche avviate. Qui la dispersione è al 21 per cento tra i 6 e i 16 anni. E anche questa misura oggi è all’esame nazionale.
Con la Caritas, inizialmente l’Unicef e altre associazioni e realtà, uno dei compiti di Libera è cercare una sistemazione adeguata e offrire un sostegno psicologico alle persone che aderiscono al progetto. «Ma continuiamo a stare accanto a loro anche quando si rendono autonome, per piccole cose, per esempio il pagamento dell’assicurazione dell’auto» afferma l’avvoco Enza Rando, che assiste Lucia e tante altre donne, ed è vicepresidente di Libera. L’equilibrio resta precario: per nessuno è semplice ricominciare da zero e andare avanti contando solo sulle proprie forze. Con il peso di un nome diverso e con le pressioni esercitate da familiari rimasti legati alle cosche; e spesso complicano il tutto i ritardi nell’esecuzione dei provvedimenti di allontanamento dei minori. Non solo. «Riscontriamo talvolta difficoltà con i servizi sociali degli enti locali, che hanno organici esigui e non sempre una preparazione adeguata» chiarisce Di Bella. «La formazione del personale è decisiva, vanno potenziati i servizi» osserva Dalila Nesci, sottosegretario per il Sud che con i deputati Fabiola Bologna e Devis Dori ha presentato la proposta di legge per modificare il codice penale, civile e quello di procedura penale e, lo scorso marzo, ha incontrato Cartabia.
«Solo così si può dare rendere stabile il progetto» interviene Di Bella, spiegando che un nodo ora è la continuità dei finanziamenti. I 300 mila euro stanziati sono quelli dell’8 per mille messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana. «Bisogna garantire condizioni di vita accettabili e opportunità di lavoro, altrimenti si ricade nel crimine», è la considerazione di un detenuto vicino alla ’ndrangheta formulata dopo una proiezione del film Liberi di scegliere di Giacomo Campiotti, che si ispira a una storia del progetto.
Un tema, quello della «malaeredità», trattato in precedenza dal regista Antonio Capuano (considerato il maestro del premio Oscar Paolo Sorrentino). In Vito e gli altri, già nel 1991, Capuano mostrava il destino cupo di un ragazzo che resta nel suo quartiere, affidato a una zia costretta a spacciare. Mentre in La guerra di Mario (2005), il protagonista viene accolto da una famiglia di Posillipo, ma senza lieto fine. «Il fatto di dividere è già negativo di per sé, figurarsi separare il figlio dalla mamma» commenta Capuano. Di certo, le inchieste più recenti hanno dimostrato che bimbani, figli di pusher, sono coinvolti nelle piazze di spaccio. Al rione Poverelli di Torre Annunziata i ragazzini venivano «redarguiti» se si rifiutavano. Anche al Pallonetto di Napoli, nei vicoli alle spalle di Palazzo Reale, la droga era un affare di famiglia: nel 2017, il traffico di stupefacenti aveva coinvolto ragazzini di 13 anni. Gli adolescenti si occupavano della consegna di cocaina, quando le madri non erano in casa, o andavano a domicilio dei clienti, mentre i fratellini assistevano al confezionamento delle dosi e tutti si ritrovavano nel mezzo di blitz e perquisizioni, di giorno e di notte.
Al termine dell’inchiesta, eseguite le ordinanze di custodia cautelare dai carabinieri, anche questi bambini sono stati portati in destinazioni protette. Nel vicoli di Palazzo Reale oggi s’incontrano i parenti e altre madri, di 20 anni, con i fianchi fasciati da gonne strette. Ridono in una calda sera d’estate, spingono i passeggini. «Bisogna sanare politicamente, è importante che non si arrivi allo spaccio. Ci sarebbero cose da fare prima, difficili, per questo io sono allegramente incazzato» insiste Capuano, mentre l’iniziativa è rilanciata in Parlamento dal pediatra Paolo Siani, fratello di Giancarlo, il cronista del quotidiano il Mattino ucciso dai clan. Sua la «mozione infanzia» approvata oltre un anno fa e sua la più recente proposta di istituire un’agenzia dedicata a sostenere le famiglie sin dai punti nascita. «È un investimento necessario sul futuro» conclude Siani.
