La gente a valle di Porzûs si accorse che li avevano ammazzati per l’odore di morte che usciva dai boschi. Buttati uno sull’altro, sotto quattro dita di terra, i cadaveri si fecero «sentire». Li avevano abbandonati nello stesso punto dove erano stati stroncati dalle raffiche di mitra. Nudi. Avevano dovuto togliersi gli scarponi che, in montagna, erano merce preziosa e furono obbligati a consegnare ai carnefici i vestiti. Per rispondere alle proteste crescenti degli abitanti, il capo dei partigiani rossi, il «Giacca» Mario Toffanin fu costretto ad affidare il lavoro di becchini ai due con lo stomaco più robusto. E anche loro – pure impermeabili alle emozioni – dovettero ricorrere a un’intera bottiglia di grappa per reggere il ribrezzo. Diciotto i morti ammazzati: di 17, nell’immediato Dopoguerra, vennero recuperati alcuni resti ai quali fu assicurata una sepoltura onorevole.
A dispetto delle ricerche scrupolose, non venne trovato nulla dell’ultima vittima: un muratore di Taipana di Udine che si chiamava Egidio Vezzaz, nome di battaglia di «Ado». Sette febbraio 1945 – giornata d’inverno lucida per i riflessi sulla neve – i partigiani comunisti sterminarono i partigiani liberali. L’argomento è di quelli classificati difficili attorno ai quali spesso si è taciuto, come normalmente si tace per le questioni imbarazzanti di casa propria. Le testimonianze vennero soltanto dai protagonisti direttamente coinvolti e suggestionati dall’interesse – evidente – di difendersi, prima che di raccontare la verità. I processi che seguirono (cinque) condannarono una cinquantina di persone ma nessuno scontò la pena. I maggiori responsabili stavano in Jugoslavia, in Romania o in Cecoslovacchia. Dipanando il clima di omertà, Tommaso Piffer, docente di storia all’università di Udine, destreggiandosi fra documenti mutilati e resoconti solo in parte attendibili, è riuscito a ricostruire i passaggi essenziali della «strage» di Porzûs. Significativamente, il libro è intitolato Sangue sulla Resistenza e, in 234 pagine, fa emergere come, a una guerra contro i nazifascisti che stavano consumando le ultime energie, se ne stesse sovrapponendo un’altra per la conquista di un potere rimasto vacante.
Le terre del Friuli fra Val Resia e Collio stavano a cavallo tra Slovenia e Italia e, come tutte le zone di frontiera, davano vita a quel «melting pot» capace di mescolare idiomi, usanze, tradizioni e famiglie Nell’ultimo censimento disponibile (di quel tempo) su due milioni di residenti, si contavano 350 mila sloveni e 150 mila croati ma tanto bastò ai partigiani jugoslavi di Tito per pretendere l’annessione dell’intero territorio, rivendicandolo «fino al fiume Tagliamento». I comunisti italiani accettarono la leadership dello stato maggiore che operava in Slovenia. La guerra partigiana doveva rispondere agli ordini di Boris Kidric ed Edvard Kardelj che giravano con la stella rossa sull’ala del basco e il dito sul grilletto della pistola per essere più pronti a sparare. La scelta non venne condivisa da tutti. In montagna, ugualmente antifascisti e in guerra allo stesso modo contro il regime di Mussolini, c’erano anche gruppi di partigiani che non erano disposti a sostituire la dittatura nera con un’altra di colore rosso. Rivendicare che il Friuli era Italia e Italia doveva restare. Rifiutarono di obbedire ai dirigenti jugoslavi. E, in ossequio ai principi cui si ispiravano, per intitolare il loro distaccamento militare, scelsero «Osoppo» mutuando il nome da una località della zona dove, durante il Risorgimento, i friulani combatterono contro gli austriaci. Per la propria autonomia: non per mettersi al servizio di un potentato straniero.
Erano ragazzi d’ispirazione genericamente liberale. Alcuni avevano alle spalle studi non banali come Gualtiero Michielon che frequentava la facoltà di lingue a Venezia o Antonio Cammarata che aveva frequentato il seminario e le scuole magistrali o, ancora, Franco Celledoni cui mancava un niente per laurearsi in medicina. Altri erano militari – carabinieri o guardie di finanza – e dopo l’8 settembre 1943 scelsero di lasciare i rispettivi reparti per la guerriglia partigiana. Angelo Augello, per esempio, che prima d’indossare la divisa faceva il falegname; Antonio Previti «Guidone» che aveva lavorato come barbiere o il contadino Nunziato Rizzo che, non a caso, imbracciando le armi contro i fascisti, scelse di ribattezzarsi «Rinato». I contrasti fra chi combatteva con i comunisti e chi intendeva starsene alla larga s’inasprirono con i «rossi» impegnati a delegittimare gli avversari inventando accuse anche infamanti che, tuttavia, in tempi di comunicazioni rallentate dagli spazi e dalla necessità di vivere nascosti, diventarono verità pubblicamente accettate. Come l’accusa che quelli della Osoppo ammazzavano i partigiani garibaldini.
In realtà, si trattò di mezze verità storpiate per farle sembrare il contrario. Una sparatoria fra due partigiani innamorati della stessa donna – una certa Bruna, che abitava a Marsure frazione di Povoletto – venne propagandato come contrasto ideologico inaccettabile. Due rapinatori giustiziati perché terrorizzavano la gente che lavorava diventarono vittime dell’odio di partito. La parola d’ordine che iniziò a farsi largo riguardò la necessità di «sbarazzarsi degli elementi fascisti» che si mimetizzavano fra i partigiani in modo da chiudere «la questione perniciosa» con quelli della Osoppo. Il «Giacca» Toffanin si incaricò di guidare il commando destinato a giustiziare dei patrioti intellettualmente onesti e fisicamente coraggiosi. Si mossero in cento con una manovra a tenaglia per circondare le baracche di Porzûs che, a mille metri d’altitudine, servivano ai pastori per l’estate quando portavano gli animali nei pascoli «alti». Per ingannare quelli della Osoppo si mossero in cinque fingendo di essersi sbandati e di militare in altre unità partigiane. Al comandante del reparto Francesco De Gregori che in battaglia era indicato come «Bolla» fecero una brutta impressione. Gli parevano male in arnese e, forse, inaffidabili. Mandò a chiamare il «responsabile politico», «Enea» Gustavo Valente, che era docente universitario di economia ma che, alla carriera accademica, aveva preferito i richiami della libertà.
Ma nessuna pietà. A «Bolla» sfasciarono la mandibola con il calcio di un fucile. «Enea» venne legato ai polsi con il filo di ferro che gli segò la carne fino all’osso. Li fucilarono con Elda Turchetti che accusarono di essere una spia. In realtà, lei era stata contattata dal comando fascista ma, prima di essere coinvolta in qualche operazione, era riuscita a scappare in montagna. Per questo le avevano attribuito il nome di battaglia di «Livia» che corrispondeva alla matricola 1755. Operazione crudelmente feroce. A guerra finita, alcuni si giustificarono per aver obbedito a ordini arrivati dalla Jugoslavia. Dalla Slovenia indicarono che le responsabilità erano del Partito comunista italiano. Che, a sua volta, scaricò il suo barile sulle «teste calde» che stavano in montagna. In ogni caso tutti fecero riferimento a decisioni mal comunicate e peggio interpretate al punto da provocare una catena di equivoci impossibili da gestire. Solo il «Giacca» Toffanin tenne duro rivendicando la bontà del suo operato. Raccontò che «Bolla», prima di essere giustiziato, ebbe il tempo di urlare: «Viva il fascismo internazionale». Lo ripeté più volte con sempre minore convinzione. Del resto, come sostenere – con la pretesa di essere creduto – che uno, davanti alle bocche dei mitra spianati, con la faccia a pezzi, potesse urlare una frase in contraddizione con l’intero suo passato?
In quel momento nelle baracche di Porzûs erano rimasti in pochi. Il resto della truppa godeva di una specie di congedo. Ne catturarono quattordici. Giovanni Comin «il Tigre» venne ammazzato mentre saliva per la mulattiera. Non faceva parte della Osoppo. Militava fra i garibaldini, era stato catturato dai nazisti e sbattuto in un vagone per essere deportato in Germania. Riuscì a fuggire guadagnando la strada della montagna ma non ebbe il tempo di farsi riconoscere. Gli altri furono divisi in piccoli gruppi e spostati in diverse direzioni. Non li lasciarono campare a lungo. Fra il 10 e il 18 febbraio furono massacrati, uno a uno. Guido Pasolini «Ermes» mostrò la risolutezza un po’ sfrontata dei 18 anni. Contestò il comunista che voleva imporre loro una «lezione politica» e, al momento di essere fucilato, tentò la fuga. Fu ferito, chiese aiuto alla gente della frazione Sant’Andrat ma, per paura di passare per fiancheggiatori, lo consegnarono ai partigiani che lo braccavano. Quando lo ritrovarono, aveva la testa aperta in due.