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Il Padrino «investe» in arte

Il Padrino «investe» in arte

Capolavori inestimabili, rubati nelle chiese. E poi reperti archeologici, tele del Novecento… Così mafiosi e camorristi (compreso Matteo Messina Denaro) da sempre si procurano questi «beni rifugio». Casi ed episodi sono sorprendenti. E mentre alcune opere sono state ritrovate, di altre se n’è persa ogni traccia.


Nel mammasantissima di Castelvetrano Matteo Messina Denaro si è sempre detto che un sacerdote, mai individuato, occultasse una sua collezione di reperti archeologici e che un’anfora d’oro da mezzo miliardo di lire nascosta in Svizzera venisse usata come garanzia per l’acquisto di partite di droga. «Con il traffico di opere ci manteniamo la famiglia» scrisse in un pizzino Messina Denaro, dimostrando, più che una passione per le opere d’arte, un certo senso per gli affari sporchi ereditato dal padre. Don Ciccio Messina Denaro nel 1962 ordinò il furto dell’Efebo di Selinunte per chiedere al Comune di Castelvetrano un riscatto da 30 milioni di lire. Di pìccioli (soldi, in dialetto siciliano) nelle casse del mafioso non ne arrivarono e, alla fine, chi doveva rubare il pezzo pregiato per conto del boss fu arrestato alla vigilia del colpo.

Ma di rapporti con noti mercanti d’arte ne sono venuti alla luce in più di un’indagine. Una di queste, nel gennaio 2015, ha permesso di riportare in Italia 5.361 reperti dal valore complessivo stimato in 50 milioni di euro, sottratti da tombaroli e finiti a Basilea nei depositi di Gianfranco Becchina, ultra 80enne di Castelvetrano che si definisce «un mecenate» mentre per i magistrati è un mercante d’arte con un passato di relazioni oscure. Poco più di sei mesi fa è arrivata la confisca dei suoi beni (10 milioni di euro). E Becchina ha dovuto lasciare anche la sua abitazione, che si trova all’interno del palazzo che fu dei principi Aragona-Pignatelli. Sono stati alcuni pentiti, non senza contraddizioni, a spifferare i presunti rapporti tra Becchina e don Ciccio Messina Denaro, prima, e Matteo poi.

Ed è dal sedicente mecenate che indirizza Vincenzo Calcara, collaboratore di giustizia un tempo vicino ai Messina Denaro, per la Natività di Caravaggio, rubata nella notte fra il 17 e il 18 ottobre 1969 all’oratorio di San Lorenzo a Palermo: olio su tela dipinto nel 1609 dal valore inestimabile. Il furto, tra i primi dieci posti della lista stilata dall’Fbi sui crimini d’arte della storia, fu attribuito dal pentito Giovanni Brusca ai Corleonesi. Sempre nello «storytelling» degli ex di Cosa nostra c’è una leggenda: le riunioni della Cupola si tenevano davanti alla Natività. Ma siccome ormai il capolavoro sembra introvabile è stata costruita pure una narrazione alternativa: un pentito ha detto che il quadro è finito divorato dai maiali, un altro che è seppellito insieme a qualche chilo di cocaina e a rotoli di dollari, un altro ancora che sarebbe stato inserito nella trattativa della stagione delle stragi. Se ne occupò pure il giudice Giovanni Falcone, ma anche per lui l’indagine si trasformò in un rompicapo. E siccome le tracce portano verso l’ex Primula rossa, in molti sperano che proprio Messina Denaro lo faccia ritrovare.

L’altra opera scomparsa, rapita nel marzo del 1971 nella chiesa di Santa Maria della Luce di Mattinata, in provincia di Foggia, è un olio su tela di Luca Giordano: nel quadro la Vergine Maria, seduta su un trono di nuvole, tiene in braccio Gesù con il globo terrestre. Certo, la storia della criminalità organizzata insegna che, prima o poi, lo Stato riesce a strappare ai criminali i loro tesori. Come il Flora, Sileno e Zefiro del maestro fiammingo Jacop Jordaens, valore stimato in 6 milioni di euro, confiscato a Rosario Marchese, considerato un superconsulente dei clan di Gela, che per arricchire la sua collezione puntava pure all’acquisto di un Goya da 10 milioni.

Il «museo della mafia» è ricco di queste storie. Quadri e reperti per i boss sono un bene rifugio, al pari dei diamanti. Beniamino Gioiello Zappia, indicato come referente della famiglia Bonanno di New York e dei Cuntrera-Caruana di Toronto, un museo ce l’aveva a casa: Guttuso, De Pisis, De Chirico, Morandi, Dalì, Sironi. Come il ribattezzato Re dei videopoker, Gioacchino Campolo da Reggio Calabria, deceduto un anno fa, che alle pareti delle sue ville teneva una collezione con De Chirico, Guttuso e Ligabue. Ma anche la Fuente de vida di Dalí, in bella vista nella sua cucina. La pinacoteca degli artisti contemporanei era invece nella villa-bunker di Nicola Schiavone, figlio del capoclan dei Casalesi Francesco detto Sandokan.

Nel libro L’impero della camorra, Simone Di Meo elenca le importanti tele di scuola napoletana esposte sulle pareti della villa di Lorenzo Nuvoletta a Marano. Perché pure ai camorristi l’arte piace. Raffaele Imperiale, detto «Lello ’o Parente», catturato a Dubai, nascondeva in un covo a Castellammare di Stabia due Van Gogh rubati nel 2002 in un museo di Amsterdam: La spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta, dipinto nel 1882, e Una congregazione lascia la chiesa riformata di Nuenen, realizzato tra il 1884 e il 1885. Pasquale Galasso, superboss della camorra, nella villa di Poggiomarino esponeva 150 quadri di pittori del Seicento e Settecento napoletano, il trono originale su cui sedeva il re borbonico Francesco II e anche una Madonna del Quattrocento francese rubata a Imperia. Una passione, quella per il sacro, che aveva pure il maestro venerabile della P2 Licio Gelli: a villa Wanda fu trovata una statua lignea della Madonna rubata nel 1978 a Rotonda (Potenza), che per anni si era ipotizzato fosse finita nei canali della criminalità organizzata.

Altro grande collezionista è stato Ernesto Diotallevi, ex boss della Magliana: si era impadronito di dipinti di Giacomo Balla, Mario Schifano e Sante Monachesi, che mostrava nel suo lussuoso appartamento a Fontana di Trevi. Massimo Carminati, il «Nero» di Mafia capitale, ha mostrato una certa verve per l’arte contemporanea: Futurballa, Marinetti, Mirò, Schifano, Consagra, Attardi, Turcato, Capogrossi, Rotella, Baj, Boetti e Manzù. Ma la chicca, che deve aver sorpreso anche gli investigatori dell’inchiesta sull’ex estremista dell’ultradestra poi accusato di associazione mafiosa derubricata in associazione semplice, era un disegno a china di un leopardo del pittore comunista Renato Guttuso. Mentre Felice Maniero, capo della mala del Brenta, aveva affidato al caveau di una banca di Lugano i preziosi dipinti della sua carriera da «Faccia d’angelo». E con i suoi Renoir, de Chirico e Semitecolo, il «museo della mafia» è al completo.

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