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Lawrence d’Arabia: la spia che il deserto trasformò in eroe

Lawrence d’Arabia: la spia che il deserto trasformò in eroe

L’autore dei Sette pilastri della saggezza è celebrato con gli stereotipi dell’avventuriero. Ma rileggendo il suo libro-capolavoro e un’illuminante biografia, emerge la grandezza di uomo alla perenne ricerca.


In fondo, se non fosse realmente esistito non sarebbe un problema. Thomas Edward Lawrence è un sogno fatto di sabbia e sudore, un composto di materia onirica in cui però la carne e il sangue sono estremamente concreti, odorosi, pulsanti. Egli è l’eroe celeste che cavalca nelle praterie dell’immagine, e poco importa quale forma abbia assunto la sua manifestazione storica. T.E. Lawrence, meglio conosciuto (agli occidentali) come Lawrence d’Arabia, noto agli arabi come El Aurens, ha colonizzato prima di tutto il nostro inconscio, ed è divenuto impossibile fare a meno di lui.

Ogni volta che ripensiamo all’Oriente, che ci troviamo a riflettere sul nostro (di europei) rapporto con le popolazioni musulmane, lui c’è, è lì presente. Ogni volta che immaginiamo un grande combattente, un soldato senza paura, lui appare. Lawrence era tutto questo, e niente di tutto ciò. Britannico, piccolo di statura, occhi penetranti ma viso non bellissimo (secondo Franco Cardini, che gli ha dedicato un libro molto intenso pubblicato da Sellerio qualche tempo fa, assomigliava a Stan Laurel), T.E. fu fin dall’inizio conteso fra due mondi.

Figlio di un nobiluomo e di una popolana, divenne studente brillante appassionato di archeologia. Da archeologo volle farsi spia, non riuscendo a farsi soldato per ragioni di scarsa prestanza fisica. Da maschio piccino divenne guerriero formidabile, da anglosassone magrolino si temprò nella fatica fino a dar lezioni di resistenza agli arabi. Era sempre lì, Lawrence, seduto sul confine: quello tra Oriente e Occidente, tra corpo e anima, tra luce e ombra.

Le edizioni Settecolori hanno appena dato alle stampe uno scritto asciutto e incantato dell’argentina Victoria Ocampo (amica e sodale di autori come Jorge Luis Borges, Roger Caillois, André Malraux) intitolato 338171 T.E. (Lawrence d’Arabia). Doveva essere l’incipit di una più ampia opera, ma basta da solo a tratteggiare l’icona immortale.

Nato in Galles nel 1888, tra il 1910 e il 1914 viaggiò in Siria e partecipò a spedizioni archeologiche nell’area mesopotamica. Fu un suo professore – forse anche attratto da lui – che lo portò a collaborare con l’intelligence britannica, e mai scelta fu più azzeccata. Tra il 1916 e il 1918, T. E. Lawrence prese in mano la tessitura del grande arazzo arabo, e guidò la «rivolta nel deserto» delle tribù contro i turchi.

Ebbe successo, tanto da guadagnarsi onorificenze e l’offerta di diventare viceré delle Indie, ma rifiutò il prestigioso incarico, quasi che non gli interessasse aver vinto la guerra nel deserto. Si ritirò a vita (quasi) privata, e lasciò libera un’altra parte della sua anima: divenne un letterato, uno scrittore raffinato con una grande ambizione. Nel 1922 – come ricorda Fabrizio Bagatti nell’introduzione alla recente edizione Bompiani dai Sette pilastri della saggezza – scrisse all’amico Edward Garnett: «Ricorderai che, una volta, ti ho detto di aver raccolto uno scaffale di libri “titanici” (libri che si distinguono per grandezza di spirito, per “sublimità”, come direbbe Longino): sono i Karamazov, Zarathustra e Moby Dick. Bene, la mia ambizione sarebbe di farne un quarto inglese».

Missione parzialmente compiuta. I pilastri è effettivamente un libro titanico, meraviglioso. Non giunge – perché sarebbe ben più che sovrumano – allo splendore dell’opera di Hermann Melville o di Fedor Dostoevskij, però vi si avvicina. La grandezza di Lawrence, tuttavia, e forse anche il motivo per cui lo ricordiamo, sta nella pluralità dei suoi aspetti, che sono inscindibili l’uno dall’altro. Non è solo un grande scrittore, solo un agente segreto, solo un guerriero. È tutto insieme.

Da studente al Jesus College di Oxford, si dedicava all’esame della cattedrali medievali. Viaggiò in Francia e perlustrò il territorio britannico a bordo del suo primo cavallo, una bicicletta. Era immerso nel Medioevo romantico di Walter Scott, e in qualche modo si formò davvero come un uomo medievale. Come una sorta di monaco guerriero.

Si plasmò con l’allenamento, dicevamo. Scrive Victoria Ocampo: «Nessuno capì meglio di Lawrence quanto è umano aver paura e nessuno fu più comprensivo di fronte alla paura degli altri». Lui, che con la paura aveva uno stretto rapporto, fu però capace «di sopportare con coraggio quasi disumano tante torture fisiche».

L’allenamento si tramutò poi in una sorta di ascesi: «Lawrence andava oltre. Aveva riscoperto l’efficacia, il valore di certe discipline religiose che metteva in pratica. Per esempio, quella della continenza». Non beveva che acqua, mangiava poco, dormiva lo stretto necessario. «Tutto diventava per lui pretesto per esercitare la sua libertà, per provare a se stesso di essere padrone dei suoi appetiti».

Che immensa lezione, questa, per il nostro mondo governato dal desiderio sfrenato, dall’appetito insaziabile e dal bisogno compulsivo. Nel suo essere in qualche modo «medievale», Lawrence è felicemente antimoderno, eppure attualissimo. Lo è prima di tutto per il luogo in cui ha esercitato la sua grandezza. Poiché europei hanno saputo stringere rapporti con gli arabi come ha fatto lui. Non si è mosso come un arrogante colonialista, ma come un guerriero fra i guerrieri.

Eppure non si è convertito all’islam, come qualcuno ha sostenuto. Ha sempre mantenuto nitidi i confini della sua identità culturale e religiosa. Ha vissuto per un ideale, almeno così scrive all’inizio dei Sette pilastri: «Col passare del tempo, la necessità di combattere per un ideale ci prese senza scampo, ci cavalcava con gli speroni e dominava con le nostre incertezze. Volenti o nolenti, diventò una fede. Ne eravamo schiavi, ammanettati alle sue catene, pronti a servir la sua santità, lieti o scontenti che fossimo. […] La lotta incessante ci rendeva incuranti della nostra vita e dell’altrui».

Ecco di nuovo il monaco guerriero. Omosessuale, e tuttavia ben forte nella sua virilità, a dispetto degli odierni piagnistei arcobaleno. Amico degli arabi, ma britannico fin nelle viscere. Intellettuale affascinato e poi immerso in una cultura altra, ma mai «pacifista dialogante» in stile Ong. Intellettuale raffinato, e pure combattente sanguinario. «In Lawrence», scrive ancora Victoria Ocampo, «l’anima e il corpo non gemono per la loro separazione, ma per il fatto di essere vergognosamente mescolati e tributari l’uno dell’altro. Odioso era per lui sinonimo di impossibile».

Lawrence d’Arabia rimane qui, fisso nella nostra immaginazione. Ci invita ad ammirarlo. Ci può apparire lontano, lontanissimo, ma ci assomiglia più che mai. E ci offre una grande lezione: ci insegna a passare attraverso il deserto, la landa desolata in cui «la costante rarefazione dava valore a ogni uomo».

Questa, forse, è la perla più preziosa che ci dona: attraverso l’allenamento, il coraggio, l’ascesi, il controllo delle passioni, la saldezza delle convinzioni e, contemporaneamente, la disponibilità al confronto, ci fornisce un modello di uomo alternativo a quello che oggi va per la maggiore. Lui, il piccoletto inglese non bello, non prestante, conferma che – attraversando il deserto e plasmandoci nell’agonismo – possiamo fare grande la nostra mente e la nostra anima. Possiamo condurre, e vincere, la nostra rivolta nel deserto.

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