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La maturità cambia, la scuola no: un secolo di esami e un sistema che non sa più bocciare

La maturità cambia, la scuola no: un secolo di esami e un sistema che non sa più bocciare

Da Gentile a oggi, l’esame di Stato muta volto ogni decennio, ma la scuola che lo prepara è rimasta uguale nella forma e più fragile nella sostanza: meno autorevole, più esposta, e prigioniera di un’ipocrisia collettiva

Da un secolo la maturità cambia forma, ma non sostanza. Nacque con la riforma Gentile del 1923, che istituì l’“esame di maturità” come verifica finale della formazione liceale e passaggio obbligato per accedere all’università; la prova doveva certificare non solo le conoscenze, ma la “maturità spirituale” del candidato: la capacità di pensare, giudicare, argomentare. Da allora, ogni generazione di studenti ha trovato un esame diverso: con o senza commissari esterni, con più o meno scritti, con tesine, griglie, crediti e prove d’indirizzo. È un termometro fedele delle nostre febbri educative e pedagogiche: quando si vuole rigore, s’inasprisce l’esame; quando s’invoca inclusione, si addolcisce; quando si sogna modernità, si digitalizza.

Il problema sta nel fatto che la scuola che la precede — quella che giorno dopo giorno forma gli studenti e le studentesse — è rimasta, in apparenza, la stessa: stesse aule, stessi orari, stessa divisione per età, stesso calendario annuale. Il corpo è fermo, solo l’abito dell’esame cambia. Eppure, se la forma del contenitore scuola non è mutata, la sostanza sì. La scuola di oggi è più debole, meno esigente, più lassa nei giudizi: è una scuola che teme il conflitto, che misura le parole per non finire in un ricorso, che si muove sotto il tiro incrociato delle critiche — giuste o sbagliate che siano — di studenti, genitori, stampa e tribunali. Una scuola che ha perso parte della propria autorevolezza e che, forse per questo, accompagna tutti alla – e nella – maturità con mano troppo leggera, nonostante il termine “esame” risuoni ancora nelle nostre quinte provando a incutere timore, con sempre minore efficacia, proprio come una grida manzoniana. Si aggiunga peraltro che la maturità, in teoria, è ancora selettiva e può non promuovere, ma i numeri dicono altro. Da anni, il 99% dei candidati supera l’esame e il restante 1% diventa subito un caso mediatico, come se fosse un’anomalia statistica o una crudeltà burocratica. Queste percentuali tanto rosee, però, stonano con altri riscontri: basti guardare i dati Invalsi, se ci si vuole fermare ai dati, che ogni anno segnalano competenze in calo, soprattutto in matematica e comprensione del testo, con una quota crescente di diplomati che non raggiunge i livelli minimi. Ma questa è un’altra storia, anch’essa scottante, che merita una riflessione a parte.

Il punto della questione non è bocciare di più, far selezione, tornare ai vecchi tempi, ma restituire coerenza al sistema. Ecco, se davvero servisse una riforma, bisognerebbe intervenire qui: o si accetta che la scuola possa non promuovere — senza drammi, senza processi —, oppure si dichiari apertamente che l’esame è solo un rito simbolico, una cerimonia di fine corso. Oggi, invece, restiamo sospesi in una strana ipocrisia: un esame “giusto”, “equo”, “inclusivo”, che però deve sempre far tornare i conti. Tutti promossi, tutti maturi, tutti contenti, a parte i rari casi che scandalizzano il Paese, come lo studente che ha scelto di tacere all’orale per protesta. Quello sì, pare intollerabile: non tanto il silenzio, quanto il sospetto che dietro ci sia una domanda vera sulla maturità del sistema stesso, così rigido e così fragile insieme. La maturità cambia sempre, la scuola no. O meglio: non cambia ciò che dovrebbe cambiare, e si indebolisce in tutto il resto. Da un secolo l’Italia discute l’esame di Stato, ma il vero esame — quello della scuola e del suo coraggio educativo — resta ancora da sostenere.

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