Chissà se ha disegnato un angelo, il giorno dell’ottantesimo compleanno, il 1º aprile scorso. Ci siamo dimenticati di chiederglielo, ma non ci sarebbe stato nulla di strano. Mario Botta, grande architetto svizzero ticinese, formatosi a Venezia e Milano, con oltre 100 progetti terminati (case, banche, biblioteche, edifici commerciali, chiese, teatri, scuole…), gli esseri celesti li ha disegnati.Per un libro uscito quasi vent’anni fa, La lingua degli angeli per principianti, edito da Skira, testi di Dario Fertilio.
Botta li immaginò alati guardiani delle sue opere di architettura. Li ritrasse al modo di Picasso, Paul Klee, Piero della Francesca: un divertissement, che segnala quanto un architetto possa e debba guardare in alto, oltre le miserie. Ma oggi è più facile trovare Vivere l’architettura, volume appena ristampato dalla ticinese Casagrande in cui Botta racconta, conversando con Marco Alloni, la storia di un uomo che da Mendrisio si è fatto valere nel mondo.
Lei dice di essere vaccinato contro le sirene del successo.
Sono stato ragazzo in un villaggio vicino a Mendrisio, mia madre aveva parenti nei paesini del Comasco. La ruralità era la nostra forza. Figlio di contadini, e mio nonno era calzolaio, ho avuto un’educazione umile. Chi nasce così non può montarsi la testa, sarebbe uno sbandato. Ho studiato all’università, ma con la consapevolezza che ognuno deve essere ciò che è nella sua propria natura.
Non ha voglia di andare in pensione?
Nella mia professione non si lascia mai. È come fare il contadino, non si può smettere. È il mio lavoro, mai fatto vacanze, non ne sento il bisogno.
A che cosa sta lavorando?
Oltre alla Scala di Milano, dove sarà completato entro il 2024 il progetto di ampliamento, sono impegnato in Cina. Per realizzare un campus universitario in una città a nord di Pechino. Confesso che vivo l’ansia del tempo, l’incertezza dovuta fino a non molti mesi fa alla pandemia, ora alla guerra. Il lavoro è cambiato. Prima volavo in Cina magari solo per poche ore. Lasciavo lo studio di Mendrisio il venerdì sera e lunedì ero già di ritorno. Innaturale, folle, al di là della misura umana. Ho lavorato con furore.




Che cosa pensa dello sconcerto provato dal comune cittadino se vaga nei nuovi rutilanti quartieri?
Mi viene in mente il filosofo Martin Heidegger. Diceva, vado a memoria, che l’uomo abita quando ha la possibilità di orientarsi all’interno di uno spazio. Verso i punti cardinali, verso il basso. Se abiti a 30 metri dal suolo, significa qualcosa. Heidegger parlava anche del tempo, non solo degli spazi. Ricordava le stratificazioni storiche, la piazza che non c’è più, la strada scomparsa che faceva mio nonno per andare a lavorare, l’angolo con un’aiuola.
Difficile oggi trovare questi segni del passato.
Siamo andati sulla Luna, non sappiamo dare spazio alla vita. La migliore aggregazione umana è la città. L’Europa ha le città più belle, flessibili e intelligenti. Meriterebbero rispetto, interventi in grado di restituirne il complesso carico storico, quando non sacro. Invece somigliano a giganteschi supermercati, dove orientarsi resta difficile ed è tutto un falso luccichio di merci. Non siamo in America, dove a parte il cuore delle città si vive in un’angosciante periferia. Preferisco Abbiategrasso.
Non è tenero con Milano, dove ha studiato e fatto un intervento importante alla Scala. Non le piace più?
Milano ha preso la corsa, non la ferma più nessuno. Vasti suoi pezzi sono omologati, somigliano a quartieri di città americane o asiatiche. Lo sconcerto è reale. L’architettura parla sempre del proprio tempo, non può tradirlo, usa gli stessi materiali, la stessa mentalità, porta la cultura del tempo storico nell’attualità. A Milano la trasformazione è stata troppo rapida, provo lo stesso disagio che vivevo in pandemia. Un tempo non lontano il centro restava quello intorno al Duomo, alla Scala. Ne sono nati altri, ma senza memoria.
Sfondo ideale per spot pubblicitari.
Non a caso. La nuova Milano, con committenze finanziarie internazionali, è il perfetto scenario per incrementare il consumo sfrenato. Andavamo a vedere le città con la memoria di un passato, ora la trasformazione è dettata dallo smartphone per i selfie e parla dello choc che abbiamo subito.
Non è colpevole anche lei? Per l’intervento alla Scala venne criticato aspramente.
L’ampliamento del teatro, a inizio del nuovo secolo, è stato il primo dopo la ricostruzione del dopoguerra, che conservava il disegno settecentesco del Piermarini. Il linguaggio da me usato era milanese, meneghino. In tanti parlarono di un grattacielo sopra la Scala, senza capire che architettura contemporanea non significa solo vetro e alluminio, ma anche volumi. Un equivoco, credo però che i milanesi, pur criticando, alla fine abbiano capito. Milano ha avuto architetti come Portaluppi, Gardella, Castiglioni, Gio Ponti, Rogers. E vi ha operato negli anni Trenta il comasco Giuseppe Terragni, riferimento mondiale per il razionalismo. Tutti rispettosi della memoria meneghina, pur innalzando talvolta torri e grattacieli. Milano era una città di androni, di soglie, di silenzi. Nei suoi edifici entrava l’arte, per esempio si ispiravano alle vedute di Mario Sironi, c’era attenzione alla luce, al lavoro a gravità, non puro ricorso alla moda globale delle verticalità.
Ha detto che non progetterebbe mai caserme o prigioni.
Violenza e dolore non fanno per me. Preferisco progettare chiese. Sono presidi di umanità, luoghi di silenzio e riflessione, anche per non credenti. Ogni tanto penso con orrore che c’è qualcuno che vorrebbe sbarazzarsene: quanti grattacieli, supermercati o silos per auto potrebbero sorgere al posto di navate e campanili.
È vero che tra tutte le sue opere, moschee e sinagoghe comprese, la sua preferita è la chiesetta di Mogno, in Canton Ticino?
Vero, la progettai controvoglia. Una valanga di neve distrusse una chiesetta del Seicento, alle porte del villaggio. Gli abitanti vollero che nascesse di nuovo. Risposi che potevano andare con l’auto nel paese vicino, le chiese non mancano. Invece avevano ragione. Quell’edificio sacro, lo realizzai nel 1986, segnava la loro appartenza al territorio. Non mancarono critiche: sulle prime non venne capito, quasi fosse un’astronave marziana. Io stesso mi meraviglio di quante brutte chiese sono state progettate da cattolici ferventi. Per disegnare una chiesa, e ho fatto l’unica cattedrale del XX secolo a Evry, in Francia, bisogna aver fede nel proprio lavoro.
Parliamo dei suoi inizi?
A scuola ero una capra, non mi piaceva studiare. Preferivo lavorare, fare il disegnatore edile. Così a 15 anni cominciai l’apprendistato nello studio Tita Carloni a Lugano. Scoprii che una linea da me tracciata poteva diventare un muro, un limite. E a 16 anni, nel 1959, realizzai la prima casa disegnata da me, a Morbio Superiore. Andavo in cantiere con le braghe corte, i muratori cercavano di allontanarmi, ai bambini non era permesso entrare. Poi capirono.
Poi l’università a Venezia e Milano.
Mi misi a studiare. Ho avuto la fortuna di avere maestri come Carlo Scarpa, a Venezia. Insegnava senza titolo, autodidatta. Un grande. La regina Elisabetta dava a lui il mandato per esposizioni a Londra. A Scarpa portavo sigarette di contrabbando da Chiasso. Schifezze, ma gli piacevano. Conobbi Louis Kahn, architetto messianico. Andava alle origini del costruire, indagava la radice dei problemi. Doveva realizzare il Palazzo dei Congressi in Laguna, non se ne fece nulla, Venezia non era pronta. Lavorai, da Venezia, per Le Corbusier, ma non feci in tempo a conoscerlo, annegò in Costa Azzurra prima che potessi stringergli la mano a Parigi.
La Svizzera le vuole bene?
Il detto nemo propheta in patria è sempre valido. Non voglio fare la vittima, ma è così. Ho da 40 anni lo studio in Canton Ticino e a Lugano l’unica cosa da me fatta sono le pensiline degli autobus, un po’ poco. Sarà che ho sempre pagato le tasse e non mi sono trasferito a Montecarlo.
Insegna ancora?
No, faccio qualche lezione di appoggio, nulla di più. Parlo della cultura contadina o delle tensioni interne che un edificio deve subire prima di assumere la forma definitiva. Come in biologia: una conchiglia, un albero, un fiore sono il risultato di questa strenua lotta interna, nascosta agli occhi.
