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Giuseppe Berto: sarà così la Fiera delle vanità

Giuseppe Berto: sarà così la Fiera delle vanità

Il romanziere de Il male oscuro aveva scritto negli anni Sessanta un saggio che anticipava i tempi e prevedeva l’alluvione mediatica di oggi, dove apparire è ciò che conta e una cattiva «forma» ha corrotto definitivamente la sostanza. Un’occasione preziosa per riscoprire un autore di ieri più che mai valido oggi.


Si va diffondendo la convinzione che ormai essere regolari sia, questa sì, una grossa buggeratura». Ci aveva visto lungo, Giuseppe Berto, quando nel 1965 scrisse queste parole. Le aveva appoggiate lì, alla fine di un capoverso: il commento sfuggente di un uomo «regolare» rassegnato al proliferare del narcisismo di massa. Normale, a dirla tutta, Berto non era. L’anno prima aveva pubblicato Il male oscuro, che gli aveva regalato la notorietà, la vittoria del Campiello, del premio Viareggio e pure il plauso di qualche critico.

Nato a Mogliano Veneto nel 1914, già nel 1947 si era fatto notare addirittura da Ernest Hemingway con il suo primo romanzo, Il cielo è rosso, un libro che se fosse uscito oggi sarebbe già una serie Netflix. Negli anni successivi, aveva continuato a far molto parlare di sé, anche se non tutte le voci erano dolci, anzi (ma ci torneremo fra poco).

Dopo l’uscita del capolavoro sulla depressione, dalla Rizzoli gli chiesero di buttar giù un testo non troppo lungo, che potesse diventare una strenna fuori commercio, un gioiellino da spedire agli amici della casa editrice. Ne uscì un volumetto denso, Elogio della vanità. Una sorta di parodia, un trattatello molto colto, per cui Berto utilizzò una lingua d’altri tempi, da intellettuale di qualche secolo prima. Un pamphlet ironico, pungente, amaro. Che purtroppo non vide mai la luce. L’editore, a un certo punto, disse d’aver perso il manoscritto. Casualmente, lo smarrì pure il critico letterario Giancarlo Vigorelli, a cui era stato affidato il compito non facile di firmare una prefazione.

Le pagine furono ritrovate, molti anni dopo, fra la carte del Vigorelli, e furono infine pubblicate come meritavano. Tornano ora in libreria grazie all’editore Settecolori, che deve aver sentito l’urgenza di offrire nuovamente ai lettori le penetranti riflessioni di Berto sulla vanità. Lo ha notato Stenio Solinas: lo scrittore veneto (trapiantato a Roma e con un pezzo d’anima a Capo Vaticano, in Calabria) aveva colto con lucidità estrema il vero dramma dell’epoca nostra: la prevalenza della vanità. O, come lo stesso Berto precisa, forte delle sue letture di psicologia del profondo, l’avanzata del narcisismo.

Alle stesse conclusioni sarebbe arrivato – ma nel 1979 – lo storico americano Cristopher Lasch, autore di un testo capitale intitolato La cultura del narcisismo. Casualità: l’editore che sta meritoriamente riproponendo sul mercato italiano le opere di Lasch è Neri Pozza lo stesso che sta procedendo alla ripubblicazione dei romanzi di Berto.

Ma restiamo sulla vanità. Ciò che allo scrittore non va giù è l’ossessione per l’apparire, che egli condanna da moralista vero, senza imparruccarsi. Con un piede nella sociologia, Berto osserva il proliferare di addetti stampa, quelli che oggi si chiamerebbero social media manager: «Ormai c’è nella nostra società un sacco di gente che vive di questo lavoro di dare una mano a chi ha bisogno di darsi importanza». E dire che il nostro non aveva mai visto una diretta di Fedez e non aveva letto le banalità che si leggono sui Måneskin e le loro mise. Per fortuna, viene da pensare, altrimenti gli sarebbe venuto un male molto più oscuro.

Non deve stupire l’attualità del saggio di Berto. Quasi tutti i suoi scritti, letti oggi, sembrano pieni di vita. E non cessano di suscitare reazioni forti. Se l’Elogio della vanità sferza – con grande classe – la superficialità endemica dell’Occidente, altri due libri s’insinuano nel buio delle nostre ossessioni. Sono legati a doppio filo: il primo è Guerra in camicia nera, uscito nel 1955 e ristampato qualche mese fa da Neri Pozza. Il secondo è Modesta proposta per prevenire (Rizzoli, 1971), che meriterebbe d’essere ristampato prima di subito.

Questi due testi – uno un romanzo, l’altro un saggio – affrontano con lucidità estrema e grande coraggio la psicosi sul fascismo che da decenni imprigiona la nostra nazione. In Guerra in camicia nera, Berto racconta la sua esperienza da volontario in Africa, giovane fascista in cerca d’avventura: «Preferisco questi giovani che fanno la guerra» scrive «e hanno il coraggio di dire ciò che ne pensano, a quelli che stanno in Italia cantando, magari in malafede, lodi al fascismo».

In questo libro unico nel suo genere, Berto esprime una posizione che ha molto da dirci: «Io non ho mai voluto essere antifascista» scrive con onestà, «prima di tutto perché non mi riconosco il diritto di esserlo (soffro, come ho già detto, d’un eccessivo senso di colpa) e poi perché avrei paura a essere antifascista: vedo troppi antifascisti che si tirano dietro i difetti del fascismo. Il mio impegno, dal 1944 a oggi, è sempre stato di essere non-fascista, cosa che ritengo assai più difficile e completa che non essere antifascista».

Ancora una volta, siamo in pieno presente: non sono forse pieni i giornali, da anni, di antifascisti in assenza di fascismo che si mostrano ben più intolleranti dell’intolleranza che vorrebbero combattere? «Berto vedeva continuità tra certi slogan fascisti e certi slogan della contestazione studentesca» sostiene Alessandro Gnocchi, che fornisce un bel profilo di Berto nel suo Scrittori controcorrente (Giubilei Regnani). «L’impalcatura teorica del Sessantotto non aveva radici salde, nonostante il marxismo si presentasse come una ferrea necessità storica. C’era bisogno dunque di icone da venerare: Guevara o Mao, per fare un paio di esempi. Dalla saldatura di spinte così diverse, a cui vanno aggiunte le istanze di certo cattolicesimo, nasce quell’ideologia movimentista che, a parere di Berto, conduceva alla sopraffazione e al conformismo».

Non sorprende che Berto sia stato a lungo sottovalutato, e oggi non sia esattamente tra i più noti autori italiani (anche se lo meriterebbe). Benché apprezzato da mostri sacri come Natalia Ginzburg, non era per nulla fedele alla linea, e si permetteva di sbriciolare i feticci. Per esempio quello della resistenza.

Nella Modesta proposta attacca: «Una nazione che venga a trovarsi nella condizione nella quale noi ci troviamo, deve o affrontare la realtà e magari lavorare duramente per migliorarla, oppure rifugiarsi nel mito. Noi altri, manco a dirlo, scegliemmo a colpo sicuro la seconda strada, c’è quella della retorica, sicché finita la guerra, quando sarebbe stato fuori tempo e fuori gusto appellarsi al concetto di patria ch’era stato anche troppo abbondantemente sfruttato dal fascismo, ricorremmo al concetto di resistenza. La resistenza divenne il fulcro, la ragione stessa del nostro esistere come nazione».

Che uso venga fatto oggi della retorica resistenziale lo sappiamo. È un uso strumentale alla retorica dell’antifascismo fuori tempo massimo. E si potrebbe arrivare a dire che tanto di questo antifascismo esibito (da musicisti, scrittori, Vip e vippetti) non sia altro che un clamoroso esercizio di narcisismo. In ogni caso, insomma, Giuseppe Berto aveva previsto tutto.

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