Grazie ad alcune intercettazioni telefoniche, del tutto casuali, si è potuto ricostruire com’è stato trafugato un prezioso dipinto del XV secolo, fortunatamente recuperato. E la banda dei ladri non sfigurerebbe in un film di Totò.
Il mezzo sgomma nel traffico. Sorpassa. Dribbla. Accelera. Inchioda. In sella ci sono due uomini e un fagotto di forma rettangolare… La cronaca viene poi fatta in dialetto partenopeo: «Ce lo portammo sopra al motorino quel coso, lo mettemmo in mezzo all’Sh (il modello del due ruote, ndr) perché non gli davamo manco valore… hai capito o no? Ce lo portammo avanti e indietro sopra all’Sh da qua passammo a casa mia…». Antonio Mauro, il conducente dello scooter, è trafelato mentre spiega a Maria Licciardi, che è a capo della camorra, le fasi del trasferimento del «coso». La «madrina» è curiosa, vuole saperne di più. Cosa sarà mai quel fardello rettangolare che lui e l’amico hanno scorrazzato per le strade dissestate di Napoli trattandolo con la stessa cura che un corriere usa per liberarsi dell’ennesimo pacco? Un tavolino di legno? No. Un televisore? Nemmeno. Un quadro? Fuochino. Ma un dipinto assai particolare: una tela del XV secolo di scuola leonardesca raffigurante il Salvator mundi, trafugato poche settimane prima dal convento di San Domenico Maggiore, nel centro del capoluogo partenopeo. Copia quasi perfetta della ben più famosa opera del Da Vinci, battuta all’asta da Christie’s per 450 milioni di dollari, nel 2017. Il volto androgino di Gesù che benedice con la mano destra e tiene con la sinistra una sfera di cristallo.
La dinamica del furto, immortalata dalle intercettazioni ambientali, è molto più vicina a un film come la Banda degli onesti di Totò piuttosto che Indiana Jones e il tempio maledetto. Mauro vorrebbe vendere il dipinto e chiede aiuto alla donna di malavita più potente della città. L’unica che potrebbe trovare un acquirente interessato all’affare. Il malvivente ha cinque complici, compreso il basista che ha sottratto il capolavoro dalla Sala del Tesoro nella sacrestia del complesso monumentale, di nome Pasquale Ferrigno. Collaboratore domestico del convento a un passo dalla pensione che, nella speranza di cambiare vita, si è affidato al Volto Santo. In tutti i sensi. Mauro si confida con Maria Licciardi come un peccatore farebbe col prete. «Ora appena aprono i musei e se ne accorgono si ribalta il mondo!» si lascia andare. Spiegando di aver quasi litigato con gli altri della gang perché non sanno quotare il dipinto. E certo non possono contattare Vittorio Sgarbi per una stima. Allora viaggiano con la fantasia. «Cinque milioni, 10. Fino a 30 milioni…». Alla fine, si accontenterebbero di un milioncino. Ma le difficoltà per una operazione del genere sono tante, ammonisce la boss. E l’Indiana Jones in salsa di pommarola lo ammette: «Ma tu come lo vendi un coso di quello, non è che è un orologio che se lo comprano tutti, o una motocicletta, 100 euro in mano dagliela, ma se non trovi il canale…». In Italia è quasi impossibile. Meglio l’estero. «Dubai, forse la Svizzera…».
Le trattative, però, non decollano. Mauro offre una ricca percentuale al clan se riuscirà a piazzarlo, e ricorda che un acquirente si era detto interessato al dipinto. Solo che non aveva capito bene di che cosa si trattasse. Quando gliel’avevano spiegato, era scappato. «Nooo voi tenete il fuoco in mano, è una cosa più grossa di me… non lo voglio manco vedere, non lo voglio manco toccare» aveva esclamato l’uomo. Lasciando la banda con l’acquolina in bocca. I ladri si tormentano. Non sanno a che santo votarsi per sbarazzarsi di quel dipinto. Iniziano finanche a sospettare di aver rubato un falso. Una crosta. Quando un mercante d’arte di Lugano lascia intendere che un’occhiata lui la darebbe, entrano in paranoia. E temono, loro che si sono rivolti alla camorra, di essere poi perseguitati dalla lobby degli antiquari arrabbiati per la truffa. Una specie di Codice da Vinci con vendette trasversali e trappole mortali. «Questo scende con i 10 milioni… dopo ci taglia la testa, questa è una mafia… viene con il test, e se non è buono non se lo prende…».
Alla fine, il Salvator mundi se lo prenderanno i carabinieri. Grazie alle intercettazioni, attivate per tutt’altro procedimento, risalgono al covo dov’è custodito – un appartamento a Ponticelli, nella periferia orientale più degradata della città – e lo riconsegnano al convento. Per fortuna (o per miracolo) la tela non ha riportato danni. Quando la banda viene a sapere di aver perso il tesoro, cade in depressione. I complici si accusano l’un l’altro di aver parlato troppo in giro e di aver fatto visitare il «coso» a un numero eccessivo di potenziali compratori. Qualcuno dei quali, sospettano, potrebbe aver fatto la soffiata ai militari. Prima delle manette, le cimici faranno in tempo a registrare l’ultima confessione di due ladri. «Se fosse andato in porto l’affare del quadro, ci saremmo aperti un garage assieme». Ma qualcuno, lassù, ha deciso altrimenti.
