Insieme al ghiaccio, è sempre stata per l’umanità una sorta di oro bianco dai molteplici utilizzi: per l’alimentazione, e poi anche per usi medici, come racconta un nuovo saggio. Oggi il manto nevoso del pianeta è però sempre più ridotto, e le macchine utilizzate per produrre il freddo aumentano il riscaldamento globale.
La poetessa americana Emily Dickinson descrisse un fiocco di neve che cadeva leggero fuori dalla sua finestra come un vagabondo indeciso se scavalcare una tettoia o una stradina di campagna. Ora che le temperature del pianeta stanno aumentando, e le nevicate sono sempre più scarse, quel fiocco ci appare ancora più fragile, come un gioiello raro. Il suo valore inestimabile emerge nel saggio L’incredibile storia della neve e della sua scomparsa (Aboca Edizioni), dello storico dell’alimentazione Alberto Grandi, che si sofferma sul ruolo che neve, ghiaccio e freddo hanno avuto nel plasmare le nostre società. Leggendolo si comprende come dalle civiltà mesopotamiche ai nostri giorni l’umanità sia sempre stata attratta dalla neve, tanto da servirsene per le ragioni più disparate.
Ma se per secoli la neve o il ghiaccio venivano prelevati dalle montagne, messi in commercio e usati in cucina e per conservare i cibi, oggi questo prelievo è in qualche modo indiretto. Infatti, le nostre macchine per produrre freddo e ghiaccio contribuiscono al riscaldamento globale, favorendo lo scioglimento del manto nevoso del pianeta. Stiamo perdendo 87 mila km² l’anno di superfici innevate o ghiacciate. Secondo uno studio di Nature, negli ultimi 20 anni la neve che, sciogliendosi, alimenta i maggiori fiumi dell’Asia si è ridotta del 16 per cento.
Neve e ghiaccio sono dunque il nuovo «oro bianco», una risorsa in esaurimento il cui valore è legato a un nostro bisogno ancestrale. «A testimoniarne la nostra disperata necessità, non conosco esempio migliore di Leonardo Da Vinci, il quale sostenne che l’uso migliore di una macchina volante sarebbe stato prendere la neve in montagna» dice Grandi. Ai primi del Cinquecento, nel coltivare l’idea di un trattato sul volo, Leonardo aveva affermato di volere far librare l’uomo tanto in alto che “porterassi neve d’estate ne’ lochi caldi, tolta dall’alte cime de’ monti”».
Già nel II millennio a.C. veniva portata nelle città mesopotamiche dalle montagne siriane, dopo averla mondata da corpi estranei e pressata per rallentare lo scioglimento. Si viaggiava a dorso di asino di notte, per non esporla al calore, e di giorno ci si fermava in luoghi ombreggiati. Era un bene di lusso custodito in ghiacciaie dalle famiglie facoltose e che si offriva agli alti dignitari insieme al vino. Nell’antica Grecia, ci spiega Grandi, le bevande era tenute fresche nel cosiddetto psykter, un vaso dotato di intercapedine nella quale era posta neve fresca. Ma si raffreddava il vino anche versandovi sopra la neve così da renderlo più gradevole. «In assenza delle sofisticate tecniche moderne, il vino era più dolce e più alcolico» precisa Grandi. «Siccome inacidiva facilmente, veniva mescolato con spezie, resina o miele, perfino acqua di mare, per coprire eventuali cattivi sapori, e favorirne la conservazione. Al momento di berlo, però, veniva quasi sempre allungato con acqua, o neve, perché altrimenti sarebbe stato imbevibile e indigeribile». La nives citrata di cui parla Plinio, neve mescolata a succo di limone, è l’antenato dei sorbetti. Quando uno chiede chi abbia inventato il gelato, Grandi risponde che non c’è una data e un luogo preciso, ma solo una traiettoria storica che punta verso il Sud d’Italia. «Il termine “sorbetto” deriva da sharbit, che in arabo significa “succo”: con la conquista della Sicilia, l’usanza di mescolare i succhi di frutta alla neve attecchì nel Sud Italia. Non era un vero gelato ma una sorta di granita. A fine Seicento la ricetta del celebre Procopio de’ Coltelli era un sorbetto senza latte, ma con le uova. Quando e dove fu perfezionata con il latte la ricetta del gelato non lo sappiamo esattamente. Di certo si cominciò a farlo in Italia tra la fine del XVII e la prima metà del XVIII secolo».
Di lì a poco, il ghiaccio divenne una materia prima indispensabile per ogni attività economica rilevante, se non altro perché permetteva di conservare alimenti deperibili e preparare burro, gelati, sorbetti, birra e altre bevande. Alla fine del 19° secolo, con l’uso del freddo come antidolorifico e antipiretico, e delle ghiacciaie negli ospedali, il commercio del ghiaccio esplose. Stati Uniti e Inghilterra, in parte anche l’Italia, ne videro crescere in maniera considerevole la produzione. Per esempio, la Sicilia vendeva neve a Malta ed Egitto e la valle del Reno riforniva Bologna e Firenze.
La raccolta della neve perse ogni ragion d’essere con la produzione industriale di ghiaccio e poi con l’invenzione del frigorifero. Oggi ne resta una produzione per bisogni che potremmo definire superflui, quali preparare un cocktail o fornire neve artificiale per piste da sci. Per soddisfarli si produce CO2 e quindi si aumenta l’effetto serra, nemico numero uno della neve. Dato che, come diceva Oscar Wilde, «nulla è più necessario del superfluo», la sfida degli anni a venire sarà quella di produrre il freddo con frigoriferi e altre macchine sempre più efficienti ed ecosostenibili.
