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Nemici per sempre

Nemici per sempre

La «ruggine» che resta nei rapporti tra Moser e Saronni (appena riemersa). Le rivalità mai spente fra tanti altri «grandi»: pugili, calciatori, assi della moto, pattinatrici… Perché il duello può continuare anche molto dopo la gara.


«Quello là è un furbino, un succhiaruote che sfrutta il lavoro degli altri e ti frega sul più bello» (Francesco Moser). «Quello là è un invidioso, è già tanto non averlo contro anche quando corriamo con la maglia azzurra» (Giuseppe Saronni). Tuona sul Montello, la Grande guerra di Checco e Beppe non finisce mai. E «quello là» – l’altro, il nemico giurato, la presenza immanente e fetida – rimane senza nome fino al giudizio universale. Le frasi sono di 40 anni fa ma il livore non si placa, le scosse di adrenalina si trasformano in risentimento raffermo che produce tossine fino a diventare zuffa postuma.

Come quella di qualche settimana fa, quando il placido vignaiolo trentino Moser, 71 anni, ha ammesso: «Fra noi era sempre scontro aperto, uno cercava di arrivare davanti all’altro o di farlo perdere. Io venivo dalla campagna, lui dalla città e si sentiva superiore. Litigavamo anche sugli aerei quando andavamo a correre all’estero. Ha vinto, poi a un tratto ha smesso di essere forte. Forse ha chiesto troppo al suo fisico». Il sobrio manager milanese Saronni, 65 anni, ha replicato: «Lui evoca sempre il confronto tra un montanaro trentino e un borghese di Milano. Peccato che io sia cresciuto a Buscate, nella campagna lombarda. Papà era autista di bus, mamma casalinga. Lo battevo sulla strada e in tv perché avevo la battuta pronta, lui invece era goffo. Ha avuto anche una seconda giovinezza perché faceva ricorso a una certa scienza».

Sciabolate incrociate fra campioni assoluti con uno spruzzo di doping, mancava solo il distratto disprezzo per «quello là». Allora Moser ha chiuso la porta in faccia al passato comune: «Polemica indegna, non parlerò mai più con un giornalista e nemmeno con lui. Si è dimostrato molto piccolo». Come Achille sotto la tenda, ecco l’epica omerica dello Sport che non conosce ipocrisie né mezze misure. Sentimenti veri, veleni eterni seppur stemperati dal tempo. Eppure Moser aveva invitato qualche volta Saronni a casa sua, in Val di Cembra, permettendogli perfino di stappare il suo spumante. E l’altro aveva cominciato a chiamarlo addirittura col nome. Ma dietro una curva ecco la puntina che fa scoppiare la gomma. E si ricomincia a litigare, da nonni, come fosse ieri.

È il destino dei grandi che per arrivare lassù hanno dovuto costruirsi il nemico, idealizzarlo, sognarlo, poi abbatterlo. È lo scenario delle grandi rivalità capaci di sfondare il tetto di cristallo fino a vette inimmaginabili, con il carburante dell’ostilità. Enzo Ferrari teorizzava: «Nella mia scuderia non esistono prima o seconda guida. Lo è di volta in volta chi va più veloce». La strategia non era un’esaltazione della democrazia in pista a dispetto delle gerarchie, ma nascondeva un perfido disegno: scatenare la guerra fin dentro casa, a costo di tradire il compagno perché a vincere doveva essere la «sua» macchina. Una filosofia alla base del braccio di ferro tra Didier Pironi e Gilles Villeneuve che sarebbe costato la vita al canadese.

C’eravamo tanto armati. Come Valentino Rossi e Max Biaggi sui cavalli d’acciaio della MotoGp senza essere cavalieri medioevali, piuttosto ruvidi interpreti di quel film che a fine anni Novanta i media internazionali definirono «the spaghetti duel». Tutto cominciò con uno sgarbo di Vale, che dopo aver vinto al Mugello fece il giro d’onore portando sul serbatoio una bambola gonfiabile con le sembianze di Claudia Schiffer. Voleva essere una presa in giro del divismo di Biaggi, in quel periodo protagonista di una liaison con Naomi Campbell. Fu l’inizio della guerra dei dieci anni. Con eccessi in pista come il gomito largo di Max per evitare un sorpasso del rivale e il dito medio in mondovisione di Vale mentre era piegato in curva, all’indirizzo dell’altro. Una storia infinita: Honda e Yamaha, spintoni sul podio, bottigliette d’acqua volanti, risse fra clan. Ogni volta il conflitto terminava con strette di mano fasulle e tregue di cartone. Frasi storiche. Rossi: «A Biaggi tira il culo arrivare dietro ogni domenica». Biaggi: «Rossi ha fatto semplicemente ridere». Amen.

I duellanti dello Sport sono tanti e leggendari, un mondo di Ussari che sciabolano all’alba fra le brume anche in mancanza di un Joseph Conrad a raccontarli. Senza scomodare Fausto Coppi, Gino Bartali e la preistoria, ecco Niki Lauda e James Hunt a 300 all’ora, rappacificati solo nel film di Ron Howard. Ayrton Senna e Alain Prost, costretti alla stretta di mano forzata a Monza dai giornalisti, mentre guardavano in direzioni opposte. Nella boxe la sfida terminale di Muhammad Alì non fu contro George Foreman (quella era leggenda nella giungla) ma contro Joe Frazier, l’ex amico, quel sentimento di affetto che si tramuta in odio e diventa acidità cristallizzata nei tre combattimenti che annientarono entrambi.

Nemici per sempre. Accade anche nel calcio, a smentita del buonismo cosmico alimentato da narrazioni edulcorate dalla più falsa delle frasi: «Al fischio finale vince il rispetto reciproco». Mai avvenuta una simile catarsi fra Zinedine Zidane e Marco Materazzi. Il campione francese cresciuto nei quartieri più violenti di Marsiglia non ha dimenticato l’insulto alla sorella bisbigliato all’orecchio dallo sfrontato italiano durante la finale mondiale del 2006. La testata vendicatrice, l’espulsione con ignominia, il titolo perduto, l’italien che festeggia e ammicca; tutto torna oggi negli incubi di Zizou che semplicemente si rifiuta di trovarsi nella stessa stanza del rivale.

C’eravamo tanto armati. Ovunque, anche negli abissi marini dove Enzo Majorca e Jacques Mayol trattenevano il respiro non solo per vincere il duello nel Grand Bleu delle apnee da record, ma per evitare di sputare veleno sull’altro da sé. Nessuno è mai arrivato ai livelli di Tonya Harding – campionessa americana di pattinaggio su ghiaccio, dove delicatezza e ferocia danzano sulle lame – che per mettere fuori gioco la rivale Nancy Kerrigan dai Giochi di Lillehammer (1994) architettò con l’ex marito un agguato da codice penale: una manganellata su commissione al ginocchio della rivale alla fine di un allenamento. L’epilogo fu beffardo: Harding nella vergogna, Kerrigan sul podio olimpico (seconda). A carriera finita, la pattinatrice «cattiva» si dedicò alla boxe femminile per dimenticare.

Talvolta i livori si allargano alle famiglie. Fece scalpore, agli Europei di calcio 2021, una rissa per procura sugli spalti mentre la Francia favorita veniva eliminata dalla Svizzera. I protagonisti erano parenti di calciatori famosi: Veronique, la mamma di Adrien Rabiot, e i genitori di Paul Pogba e Kylian Mbappé. La prima accusava gli altri di avere figli senza attributi, i secondi replicarono che lei era una ficcanaso, intrigante come il pargolo. Una sceneggiata che consola, anche se non assolve, i famigliari in perenne eccitazione che la domenica apostrofano chiunque (arbitri, avversari, vicini di posto) alle partite di terza categoria.

Poiché lo Sport è metafora di vita non può fare a meno dell’invidia, della negatività. Con qualche eccezione e qualche redenzione. Fra Bjorn Borg e John McEnroe non c’è mai stata tenerezza. Fino al giorno in cui il monello di New York, in piena rissa con un giudice di sedia, non fu richiamato dallo svedese dall’altra parte della rete: «John, non arrabbiarti, stiamo giocando bene. Continuiamo a divertirci e divertire». Anni dopo McEnroe rivelò: «Rimasi di sasso. Non sapevo se dicesse sul serio o mi stesse prendendo in giro. Ma cominciai ad ammirarlo». «Quello là» scomparve per sempre. Diventarono amici.

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