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«Quanto sappiamo della persona che abbiamo accanto?»

«Quanto sappiamo  della persona che 
abbiamo  accanto?»

Nikolaj Coster-Waldau (Il bel Jamie Lannister de Il Trono di Spade), racconta la sua vita, i progetti futuri e la nuova serie L’ultima cosa che mi ha detto in cui interpreta il ruolo di un marito che, all’improvviso, sparisce.


Si collega dalla Groenlandia, luogo natale della moglie cantante e attrice Nukâka, e chiede subito di quale città italiana siamo, perché del nostro Paese ha molti ricordi. «A Milano sono venuto varie volte, ma la più incredibile è stata a vent’anni». Nikolaj Coster-Waldau chiacchiera con una tale spontaneità da far dimenticare subito ogni cliché sulla freddezza dei nordici. Danese, 52 anni, uno dei volti più amati della serie cult Il Trono di Spade (2011-2019), è anche un sex symbol sui generis: cinque anni fa il marchio L’Oréal Paris l’ha voluto come «ambassador» per promuovere, fra l’altro, la bellezza della parità di genere. Ora è su Apple TV+ con una serie thriller: L’ultima cosa che mi ha detto con Jennifer Garner, dall’omonimo romanzo di Laura Dave, racconta la misteriosa sparizione di Owen (lui) e lo spiazzamento della moglie sposata pochi mesi prima, che inizia a cercarlo insieme alla figlia adolescente di lui. Non riescono a credere che sia fuggito, come sostiene l’Fbi, per uno scandalo legal-finanziario, e che sia diverso da come l’hanno sempre conosciuto. Le due iniziano a cercarlo partendo dai criptici messaggi che Owen ha lasciato.

Il suo personaggio si vede solo nei ricordi di moglie e figlia, dove sembra un uomo dolcissimo e affidabile. Non è stato strano interpretarlo in questa chiave?

È quello che rende interessante la storia, un mistero nel mistero. Ci si può fidare dei propri ricordi? Quanto sappiamo davvero uno dell’altro? Non ci sono bianchi e neri in questo thriller, solo sfumature di grigio, come nelle nostre vite.

È stata la psicologia umana con le sue sfumature a spingerla verso il mestiere di attore?

In realtà ho sempre voluto farlo, fin da bambino, non so spiegare perché. Giocavo sempre a essere qualcun altro. A 18 anni sono entrato alla Scuola nazionale di teatro, a Copenaghen, senza sapere che cosa avrei trovato sulla mia strada. È stato bellissimo, come dicevo a proposito di Milano, il viaggio che ho fatto con alcuni compagni di corso nelle città e nei teatri europei.

E che cosa vide a Milano?

Giorgio Strehler che portava in scena Faust, cinque ore di pièce… lunga eh? Non capivo l’italiano, ma conoscevo l’opera. Mi colpì il suo modo di uscire a prendere gli applausi, tutto vestito di bianco, sembrava Gesù, con il pubblico che gli lanciava fiori. Poi incontrammo Dario Fo nel suo studio, ho ancora le foto: la sera assistemmo a uno dei suoi monologhi incredibili. Anche uno straniero lo poteva capire, era talmente espressivo!

Il suo primo successo?

Sono stato fortunato: il primo film che ho girato, a 23 anni, fu presentato al Festival di Cannes. Era Il guardiano di notte del regista danese Ole Bornedal. Poi ho fatto molto teatro.

La bellezza aiuta a farsi strada?

Ho avuto anche tanti rifiuti. Non riesci mai a capire cosa gli altri vedano in te, l’unica cosa che puoi fare è cercare di smentire qualsiasi pregiudizio mostrando i tuoi veri lati.

Ha recitato perfino con Mick Jagger, nel primo film girato nel Regno Unito, Bent di Sean Mathias, nel 1997. Che cosa si ricorda?

Fu molto divertente. Eravamo nelle rovine di una fabbrica di Glasgow trasformate, per la storia, in un locale notturno della Berlino anni 30. Jagger interpretava il proprietario del night club e, proprio al mio primo giorno di set, lo vidi in costume da drag queen: davvero surreale. Anni dopo ci siamo ritrovati, lui era il produttore di Enigma di Michael Apted, di cui ho fatto parte. È una bella persona.

A 26 anni puntava già al cinema anglosassone, per non dire a Hollywood?

Di sicuro volevo dimostrare di poter recitare in inglese, ma ero andato in Gran Bretagna con la sfida di lavorare a teatro. Nel 2001, grazie a Black Hawk Down di Ridley Scott, sono volato anche in America. Da allora ho fatto il pendolare tra Stati Uniti ed Europa, senza trasferirmi, perché le mie radici, la famiglia e gli amici sono troppo importanti. E poi ho due figlie (Filippa e Safina, che ora hanno 22 e 19 anni, ndr). Anche loro vogliono fare le attrici.

Lei le incoraggia?

Sarebbe strano se non lo facessi, avendo scelto quella strada anch’io. Le incoraggerei in qualunque cosa le rendesse felici. Ora sta producendo una serie dal titolo singolare: An Optimistic Guide to the Planet.

Di cosa si tratta?

Sono documentari di viaggio, in cui racconto luoghi e soprattutto persone che vale la pena conoscere perché fanno qualcosa di concreto per il pianeta, contro l’inquinamento. Sono andato da poco in Giappone e in Australia, presto sarò in provincia di Firenze per un progetto che riduce l’impatto dell’industria dell’abbigliamento, come noto particolarmente inquinante. Sono convinto che tutti, in fondo, vorremmo frenare il cambiamento climatico e le sue conseguenze.

In L’ultima cosa che mi ha detto c’è un dialogo dove la moglie chiede a Owen che cosa lo definisce. Lei cosa risponderebbe se glielo chiedessero?

Mica facile dirlo in poche battute… Penso sia l’amore per la mia famiglia e le mie figlie, ma anche per il mestiere che faccio. Sì, per le storie che racconto facendo l’attore.

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