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«Siamo tutti registi». Intervista a Gabriele Muccino

«Siamo tutti registi». Intervista a Gabriele Muccino

Gli smartphone sono diventati lo strumento principale per registrare le nostre esperienze. Parola dell’autore del film di culto L’ultimo bacio, che ne ha usato uno per il suo ultimo corto, una storia d’amore che ha la magia di un film.


Due ragazzi s’incrociano spesso in metropolitana, si piacciono, non trovano il coraggio di parlarsi, finché non scoprono di avere in comune un tratto inaspettato che li unisce (quale, sarà una sorpresa). Molto in breve, è la trama di Living in a movie, cortometraggio sulla dolcezza delle illusioni e gli accidentati percorsi dell’amore firmato dal regista Gabriele Muccino. Una pillola che condensa la sua poetica cinematografica fatta di timidezze e slanci, fiammate di gioia e dubbi del cuore. Un esperimento tecnologico, anche. Perché il demiurgo di megaproduzioni di Hollywood come Sette anime o La ricerca della felicità, l’ha girato con uno smartphone: il nuovo Mi 11 5G di Xiaomi, che spicca per la qualità dei suoi video. «Era un esperimento senza incognite» rassicura Muccino collegato su Zoom in compagnia di un bicchiere di vino rosso: «Il percorso di una storia è sempre nelle mani di un regista, la differenza narrativa la fa chi c’è dietro il mezzo».

In compenso, i telefonini hanno dato a chiunque la possibilità di dirigere il racconto della sua vita.

Hanno spalancato la necessità nascosta di divulgare la nostra esistenza attraverso un metodo democratico e senza frontiere. Dai social si possono raggiungere 20 amici, migliaia o milioni di persone attraverso lo stesso strumento.

Perché si è sviluppata questa esigenza?

Non resistiamo alla tentazione di registrare quello che ci accade. È come se l’occhio umano non fosse più affidabile, se abbia delegato a uno schermo il compito della memoria. La risposta che mi do è che l’uomo aveva bisogno di catturare il tempo, di fermarlo per la paura della sua volatilità.

Come sarebbe L’ultimo bacio oggi, con gli smartphone in scena?

I protagonisti avrebbero da fare i conti con una nevrosi supplementare, quella di nascondere come in una scatola nera le loro esistenze piene di misteri, di segreti depositati in un cellulare.

La pandemia ne sta scatenando a dismisura di nevrosi. Come la trasporterebbe dentro un film?

A essere sincero l’idea non mi attrae, se proprio dovessi concretizzarla farei una commedia, che in realtà è uno sfogo del dramma. Il drammatico diventa talmente folle e il folle talmente furioso da rendersi comico. Punterei sul fatto che, nelle nostre case, non possiamo più nasconderci, scappare, fuggire. Tutto ciò costringe a una visibilità dell’intimità che ci mette a nudo.

Nel cortometraggio non ci sono le mascherine, nemmeno in metropolitana. Ritornano giusto nelle immagini di backstage durante i titoli di coda. Il principale bisogno, al momento, è proiettarsi nell’impossibile?

Vogliamo tutti dimenticarci delle mascherine, inserirle richiamerebbe alla mente la sospensione temporale che stiamo vivendo. Non intrattiene, piuttosto angoscia. Tra 6-8 mesi il virus sarà debellato, cerchiamo di guardare avanti. Mia nonna uscì dall’influenza spagnola senza nemmeno un vaccino, lo stesso faremo noi.

Guarirà pure il cinema?

Penso ci sarà un grande ritorno delle sale non appena riapriranno. È come per i ristoranti: quando è possibile andarci, si affollano. Il cinema è un’agorà, una piazza nella quale finalmente si sta insieme per condividere. Non ci basteranno più le piattaforme digitali.

Il suo ultimo lungometraggio, Gli anni più belli, si sofferma su una diffusa miopia. Sull’inconsapevolezza di cogliere la bellezza mentre la si sta vivendo. Dopo tutta questa bruttezza, riusciremo ad assaporare i momenti felici con maggiore consapevolezza?

La frase ricorrente di quel film era: «Alle cose che ci fanno stare bene». Arrivò pochi giorni prima di Codogno, fu precursore di un sentimento, quello dell’inseguimento della normalità. L’abbiamo persa completamente, la rivoluzione sarà riuscire a riscoprirla. E finalmente godersela.

Cosa l’attrae di più per una storia: la svogliatezza apatica dei giovani imprigionati nella distanza della didattica e delle relazioni, o l’incontenibile voglia di vita degli adulti, che continuano ad assembrarsi per il bisogno di ritrovarsi?

Nei Paesi mediterranei, un’ibernazione esistenziale è insostenibile. Sto per fare una serie per Sky, riprende il film A casa tutti bene. Racconto una grande famiglia allargata di cugini, nipoti, figli, disfunzionale alla pari della società. Che pur nel malfunzionamento dei suoi meccanismi, torna sempre a riaggregarsi, a riunirsi, come se ci fosse una sorta di magnete che respinge le forze e poi le ricattura.

Non sarà una fotografia della pandemia, però sembra quasi il suo esorcismo.

Il cinema vende anche il sogno di quello che non stiamo vivendo. È una proiezione di ciò che potremo essere o che sappiamo non potremo realizzare mai, o almeno non adesso. È un’esperienza che nutre e completa. Non è una stortura dire che siamo, in parte, i film che abbiamo visto. Siamo fatti, anche, dei film che abbiamo amato.

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