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All’ultimo schermo

All’ultimo schermo

Sale che chiudono e spettatori in forte calo. Eppure dopo il lockdown si era pronosticato una ripresa del settore che, bisogna sottolinearlo, nel resto di Europa è in pieno rilancio. E le difficoltà vanno oltre il successo delle piattaforme digitali: scarsa qualità dei film e finanziamenti pubblici «a pioggia» che non fanno un’adeguata e necessaria selezione.


Non resta che sperare nell’effetto traino di una non memorabile edizione della Mostra di Venezia. L’industria del cinema si aggrappa a quest’ultima illusione dopo due anni di «coma» da Covid e un post pandemia deludenti. Il calo di spettatori e incassi è drammatico e stride il confronto con il resto dell’Europa dove il pubblico è tornato davanti al grande schermo. Eppure, nel nostro Paese, le produzioni sono abbondanti e nutrite da generosi fondi pubblici. Ora ci si interroga su quello che accadrà nei prossimi mesi quando, per far quadrare i bilanci stressati dai rincari energetici, saranno inevitabili alcune misure di risparmio. Si fanno le ipotesi della settimana corta della programmazione con un giorno in più di chiusura, di un taglio di alcune fasce orarie o dell’extrema ratio di un aumento del biglietto. Le misure di austerità però rischiano di dare il colpo di grazia al settore.

Veniamo ai numeri. Gli incassi quest’anno (179,741 milioni di euro) sono stati meno del 50 per cento del 2019 (390,387 milioni). Quelli del 2021 erano circa l’88 per cento in meno del pre-pandemia. Guardando alle presenze, a fronte di 60,682 milioni del 2019, quest’anno le sale contano 26,198 milioni di ingressi. Anec e Anica, le associazioni di esercenti e di produttori, sottolineano che l’obbligo della mascherina fino a giugno non ha aiutato. Ma non avevano detto che c’era voglia di tornare al grande schermo? La crisi sta decimando le piccole strutture, che scompaiono una dopo l’altra. Nel nostro Paese si contano più o meno 3 mila sale. Nel biennio di pandemia 150 hanno chiuso, mentre quest’anno circa 400 si sono fermate temporaneamente per le restrizioni sanitarie.

Stando sempre ai numeri, c’è davvero un caso Italia. Secondo l’Unic – l’ente che riunisce le associazioni dei cinema di tutta Europa – tra 2020 e 2021, mentre il botteghino del nostro cinema era in profondo rosso, gli incassi in Germania sono cresciuti del 25,8 per cento, in Spagna del 46,4 e in Francia del 47,1 per cento. In tutto il continente, nel 2021 gli spettatori sono aumentati del 38 per cento e gli introiti del 42 rispetto al 2020. Un’indagine di Swg realizzato per il ministero della Cultura ha tentato di capire le cause della crisi. Si parte dal dato secco: quest’anno il 60 per cento degli italiani non è mai andato al cinema; dimezzati i fruitori assidui mentre i saltuari sono oltre un terzo di meno.

Dal report emerge anche che la crisi viene da lontano: 4 su 10 non frequentavano le sale neppure prima della pandemia. Perché questa disaffezione? La maggior parte, tra i 30 e i 60 anni, dice che è per mancanza di tempo ma poi preferisce vedere i film in tv (56 per cento) e sulle piattaforme come Netflix, Amazon Prime Video e Disney (il 40 per cento). Le produzioni italiane escono malconce nella classifica delle preferenze. Attirano soprattutto senior e anziani. «A vincere sono sempre e comunque prodotti americani che riescono ad attrarre il 60 per cento degli spettatori mentre quelli italiani hanno difficoltà di appeal sul pubblico» commenta il direttore generale dell’Anec, Simone Gialdini. «Il nostro cinema sconta le restrizioni del Covid durate più a lungo che altrove. La verifica del suo stato di salute si avrà nei prossimi mesi anche se il settore potrebbe risentire della crisi energetica».

Gialdini non nasconde preoccupazione: «I blockbuster non sono tanti e la bolletta energetica triplicata ha fatto aumentare i costi di gestione. Gli esercenti saranno costretti a fare alcune considerazioni: per le piccole sale ridurre gli spettacoli settimanali, con un giorno di riposo in più e le fasce orarie. L’aumento del biglietto non è all’ordine del giorno, perché sarebbe un boomerang. Ma in futuro chi può dirlo…». La crisi del cinema ha una contraddizione: mentre il pubblico diminuisce, si continua a produrre come fossimo ancora in un’epoca d’oro. È la conseguenza di un mercato talmente drogato dai fondi pubblici che si disinteressa del risultato al botteghino. Ecco quello che ha detto il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, alla presentazione del cartellone: «Sono arrivati alla selezione tantissimi film italiani, troppi, molti al di sotto di una accettabile qualità, non paragonabili alla storia del cinema italiano». Un bell’affondo.

Ogni anno ne vengono girati oltre 300; secondo i dati Anica, 325 nel 2019, 252 nel 2020 e 328 nel 2021 nonostante la pandemia. Numeri giustificati solo dalla pioggia di fondi statali. Si può dire che la produzione è finanziata quasi al 100 per cento. Circa il 60 per cento dei costi è coperto, fra «tax credit» al 40 per cento, un credito d’imposta che nessun altro settore imprenditoriale si sogna di ottenere; contributi del ministero, selettivi e legati al risultato dei film negli anni precedenti e agli incassi; e contributi regionali. Le coproduzioni con network televisivi e piattaforme streaming drenano altri soldi e si arriva a una copertura dei costi quasi totale.

I numeri del ministero della Cultura fanno impressione: nel 2021 hanno chiesto e ottenuto il credito d’imposta 301 opere di finzione, 165 documentari e 15 film d’animazione, per un totale di 481 titoli. Una valanga, se si pensa che nel 2020 sono stati 115 più 80 documentari, e nel 2019 si contano 74 opere di finzione, 48 documentari e un progetto d’animazione. Un arrembaggio al tax credit che copre da solo il 40 per cento dei costi eleggibili, denari pubblici che sono parte dei 750 milioni di euro del fondo del ministero ripartito in tante voci. Non mancano le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (200 milioni), ma destinati all’adeguamento energetico delle sale cinematografiche e teatrali. Tanti, troppi soldi e grande facilità di accesso alla produzione, con il rischio di realizzare film fine a sé stessi e senza mercato, perlomeno quando si tratta di cinema per la sala. Al contrario di quello che accade per le piattaforme, dove la qualità è molto alta perché la domanda è selettiva. L’ad della società cinematografica Medusa Giampaolo Letta è convinto dell’anomalia: «Siamo in un sistema a maglie larghe, per cui trovano finanziamento tanti film».

Nicola Borrelli, a capo della direzione generale cinema e audiovisivo al ministero della Cultura commenta: «È vero, i numeri sono alti, l’incremento è notevole, stiamo intervenendo già nel 2022 e ancor di più nel 2023 per evitare qualunque rischio di distorsione. Introdurre nuovi criteri selettivi immediati sarebbe facilissimo; noi vogliamo però agire in modo da non impedire l’arrivo di imprese e talenti, se hanno i giusti requisiti».

Benedetto Habib, presidente della sezione produttori nell’Anica, è contrario a «restringere le maglie» in modo indiscriminato. La vera sfida, incalza, «è ricostruire il rapporto con il pubblico. Bisogna offrire qualcosa di più, cercare di aumentare la qualità anche con investimenti maggiori. Spesso i film vengono fatti per essere finanziati senza preoccuparsi di avere un contatto con il pubblico». E questo avvantaggia le produzioni straniere.

Secondo l’ultimo rapporto Cinetel sul mercato 2021, la quota al box office per il cinema italiano è stata intorno al 20 per cento con un crollo del 64 per cento rispetto al 2020, segno tangibile di disaffezione che si riverbera anche nel triste primato di zero film italiani tra i primi 15 incassi. È con questa prospettiva che il settore affronta un autunno di incognite. La crisi energetica restringe le capacità di spesa del pubblico che sarà sempre più tentato dal cinema in streaming, più comodo e meno costoso. E spesso, spiace dirlo, più appassionante.

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