Bufera su Uber: sotto accusa Macron e altri politici che hanno favorito l'azienda Usa
Violazioni di regole, rimedi per ingannare la polizia e autisti a rischio sono alcuni dei punti svelati da un'inchiesta partita dalla pubblicazione di oltre 124mila documenti interni
Trucchi segreti per bloccare i computer aziendali durante i controlli della polizia, autisti messi in pericolo di fronte alle manifestazioni dei tassisti francesi, soldi e vantaggiose partecipazioni garantite a politici, ai loro assistenti e a funzionari in grado di sostenere la causa e pianificare norme che facilitassero le operazioni. C'è questo e molto altro negli Uber Files, un'ampia raccolta di oltre 124mila documenti confidenziali interni all'azienda fondata a San Francisco nel 2010, che dimostrano la pessima condotta societaria registrata tra il 2013 e il 2017, gli anni in cui sotto il controllo del co-fondatore e allora amministratore delegato Travis Kalanick, i servizi di Uber si sono diffusi a grande velocità in decine di paesi, rappresentando uno dei punti apicali dell'economia condivisa.
A svelare le pratiche illegali applicate in particolare sul mercato europeo, quello più duro e restio all'arrivo delle corse da prenotare via app che variano il prezzo in base al traffico e alle richieste, è stato per primo il Guardian, che ha ottenuto e poi condiviso i documenti con altre testate di vari paesi per mettere in luce le gravi responsabilità, la spregiudicatezza e le lacune etiche di Uber. Al di là del sistema di lobbying messo i campo in maniera sistematica e capillare per conquistare l'appoggio di esponenti politici, professori e altre figure strategiche rilevanti, utili per assicurarsi una buona pubblicità del proprio business model e dell'alternativa a portata di mano in grado di bucare il monopolio dei tassisti, nei documenti analizzati si evidenzia la facilità con cui i dirigenti della compagnia hanno violato le leggi in vigore nei vari paesi e ingannato le forze di polizia, oltre a recare danni ai propri autisti, con potenziali conseguenze fisiche peggiori della prolungata diatriba sull'inquadramento degli stessi tra dipendenti (con rispettive tutele) e lavoratori autonomi.
Se Uber chiedeva aiuto c'è stato chi rispondeva presente, garantendo una mano per agevolare l'ascesa del servizio. Il primo a finire sotto accusa è l'attuale presidente francese Emmanuel Macron, che durante il periodo 2014-2016 è stato ministro dell'Economia nonché strenuo sostenitore di Uber e riferimento diretto di Kalanick (i due si chiamavano per nome, a dimostrazione dei rapporti frequenti e informali che si erano creati, con riunioni tenute negli uffici ministeriali e mai registrate nell'agenda del ministro). Al capo di Uber fu promessa la modifica delle norme sui trasporti nel mercato transalpino a beneficio della sua azienda. Il primo cittadino francese non è stato l'unico a rendersi disponibile per la causa Uber, poiché nel vortice di email, SMS e messaggi WhatsApp passati in rassegna spuntano i nomi dell'ex premier irlandese Enda Kenny e del cancelliere tedesco Olaf Scholz, sondato dalla lobby a stelle e strisce quando era il sindaco di Amburgo. E uscendo dall'Europa la lista include pezzi da novanta come Joe Biden, al tempo braccio destro di Barack Obama, l'ex ministro dell'Economia inglese George Osborne e l'ex premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Il caso più eclatante del meccanismo del triangolo lobbying-assunzioni-pressioni riguarda, però, Neelie Kroes, ex ministro dei trasporti dei Paesi Bassi e vicepresidente della Commissione europea con delega alla concorrenza fino al 2014. A un anno dalla fine del mandato europeo, Kroes ha chiesto l'autorizzazione all'Ue per diventare consulente di Uber ricevendo parere negativo. Solo che secondo quanto riportato nei documenti, al di là del mancato avallo, la Kroes ha esercitato pressioni su ministri e esponenti del governo olandese per evitare un'indagine sulla sede europea di Uber ad Amsterdam. E appena passati i 18 mesi previsti dalle regole Ue per le assunzioni in aziende private dopo aver concluso un mandato europeo, la Kroes ha ottenuto il suo posto in un comitato di Uber, assicurandosi uno stipendio da 200.000 dollari.
"La violenza garantisce il successo", firmato Travis Kalanick. É una delle frasi pronunciate dall'ex ad di Uber, a dimostrazione di quanto poco fosse sensibile alla causa dei suoi autisti. Tali parole arrivano, infatti, all'indomani dei prolungati scioperi organizzati dai tassisti francesi in tutto il paese (iniziative simili sono avvenute pure in Italia, Belgio e Spagna), quando il co-fondatore ha soffiato sul fuoco incoraggiando chi era in prima linea a scendere in piazza per manifestare contro i tassisti e a favore di Uber per mantenere accesa la polemica. Un'azione potenzialmente molto rischiosa, a fronte della quale Kalanick ha confidato che era il prezzo da pagare per inseguire il successo. L'abitudine all'inganno era parte integrante della condotta di Uber, come dimostrano gli accorgimenti studiati in caso di intervento della polizia nelle sedi dell'azienda. Come successo negli uffici di Amsterdam, per impedire alle autorità di risalire a documenti compromettenti, Kalanick ha escogitato il kill switch, meccanismo che faceva scattare il blocco immediato di tutti i sistemi informatici in loco.
"Non abbiamo e non creeremo scuse per comportamenti passati che chiaramente non sono in linea con i nostri valori attuali. Chiediamo invece al pubblico di giudicarci in base a ciò che abbiamo fatto negli ultimi cinque anni e cosa faremo negli anni a venire", ha detto Uber in una nota inviata al Guardian.