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Tecnologia

Quella intelligenza artificiale creata in Italia

Può capire sempre quello che diciamo, nonostante i nostri errori grammaticali e l’uso del dialetto. Sa agire in modo efficace, prendendo decisioni in base al contesto. Valerio D’Angelo, ceo di Fiven, azienda specializzata in innovazione, racconta i vantaggi di un’Intelligenza artificiale realizzata nel nostro Paese. Uno strumento necessario per non restare indietro nella competizione globale.

Utilizzi rivedibili dei verbi ausiliari (avere o essere, questo è il dilemma), zoppicature grammaticali, inflessioni ed espressioni dialettali: sono tutte sfumature del nostro linguaggio che un’Intelligenza artificiale istruita all’estero potrebbe faticare a decifrare, fraintendendo completamente il senso di una frase: «Patriottismo a parte, un’Ai italiana ha parecchio senso pratico. Nelle interazioni quotidiane, incluse quelle vocali, funziona meglio» spiega a Panorama Valerio D’Angelo, ceo di Fiven, uno dei pionieri tricolore in questa nuova prateria del dialogo con le macchine, che poi è la premessa necessaria per metterle al servizio di aziende e utenti. Fiven, multinazionale con varie sedi tra lo Stivale e il Brasile, 400 dipendenti, decine di clienti di spessore, ha creato «MyAiP», una piattaforma d’Intelligenza artificiale «chiavi in mano»: provvede a una serie di servizi pronti all’uso, in grado di aiutare le imprese. Senza che debbano reclutare, e stipendiare, schiere d’esperti d’algoritmi per cogliere le ultime opportunità del digitale. «Dopo averci scelto» dice D’Angelo «un’azienda potrà assistere i suoi clienti in automatico via chat, con tassi di comprensione dei messaggi superiori al 99 per cento. Dando vita a un’interazione matura: oltre a conversare, l’Ai arriverà a svolgere azioni pratiche».

Quali?

Cito un caso: se un utente di una società di telefonia scrive che il modem non funziona, l’Intelligenza artificiale non si limita a mostrargli sullo schermo come resettarlo, ma lo fa direttamente, inviando un impulso. È davvero operativa.

Che altro?

Può diventare una sorta di «concierge», che compra il biglietto di un aereo o di un treno al posto nostro. O richiede un certificato alla pubblica amministrazione. Basta digitare, o parlare, e fa tutto il computer. Mentre noi risparmiamo tempo, fatica, lungaggini burocratiche.

La chat sapientona è l’unico territorio d’applicazione?

È uno di molti. Abbiamo sviluppato una soluzione, «CV Screener», che riduce di oltre il 90 per cento il tempo necessario per scremare tra i curriculum. Così la ricerca di candidati diventa efficace e veloce.

Dov’è l’italianità in questo ambito?

Nella sensibilità al contesto. L’algoritmo non filtra solo i talenti che parlano inglese o hanno maturato determinate esperienze in linea con una posizione. Sa dedurre peculiarità specifiche, quali le doti di leadership.

Come ci riesce?

Rilevando che un candidato, per esempio, è stato capitano di una squadra di pallavolo o un capo scout. L’Ai, in sostanza, legge tra le righe. Torniamo sempre lì: per farlo, deve avere una matura conoscenza della lingua.

Se questo è già il presente, quale sarà il futuro?

Lato imprese, una gestione evoluta delle forniture: l’Intelligenza artificiale modulerà gli ordini in base alle necessità di ciascuna, perché non soffra mai di carenze o sovraccarichi. Oppure, analizzerà le chat con i clienti, le e-mail da loro inviate, i post sui social network legati a un’azienda, per determinare, in tempo reale, qual è la percezione e la reputazione generale. Consigliando d’intervenire dove necessario per correggere il tiro.

A rischio di cadere nella solita retorica legata all’Ai, sembrano tutte elisioni di mestieri che erano prerogative umane.

Io la vedo in un altro modo: si tratta di liberare risorse che possono essere utilizzate in ambiti differenti. Per esempio, un operatore di un call center potrà andare a supportare la forza vendita, aumentando il giro d’affari complessivo della sua società.

Resta da chiarire il nodo dei costi. Un’Intelligenza artificiale locale è competitiva, se paragonata con quella fornita dai grandi colossi?

Decisamente sì, perché ha una struttura più snella. Rispetto ai nomi forti dell’hi-tech, risultiamo convenienti. Ed è un bene, perché non possiamo fare affidamento solo su di loro: sarebbe come essere totalmente dipendenti da altri Paesi per l’approvvigionamento dell’energia.

Qual è la posta in gioco?

La competitività internazionale. L’Europa è indietro rispetto alla Cina e agli Stati Uniti e il divario rischia di allargarsi ancora. La formazione riveste un ruolo essenziale.

Come estenderla a chi non è più sui banchi di scuole o università? Per loro, è troppo tardi?

Servono politiche a favore di queste età di mezzo, per evitare che siano tagliate fuori da una rivoluzione inevitabile. Bisogna incentivare le aziende a preparare i dipendenti, anche con sostegni economici diretti. La formazione all’Ai dovrebbe essere vista come uno strumento di welfare di base per le persone. Non come la sanità, ma quasi.

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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