Moriremo tutti di selfie?
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Moriremo tutti di selfie?

Dietro alla selfite, gravi carenze di autostima, dicono gli psicologi. Ma anche un altrettanto preoccupante bisogno di sentirsi vip per un momento

Qualche giorno fa è successo, in senso letterale. Carolina del Nord. Una ragazza, con pessima scelta di tempo e ironia involontaria, posta su Facebook un selfie con scritto: "La canzone Happy mi fa felice".

Un minuto dopo era morta per un incidente, fatale la distrazione dovuta all’impellente bisogno di condivisione e autocelebrazione.

Ma, casi specifici a parte, queste diaboliche fotine, ci seppelliranno con la loro insulsaggine?

Selfie è stata la parola dell’anno 2013 secondo l’Oxford Dictionary, il dizionario più autorevole della Gran Bretagna, che la definisce: autoscatto fatto usando uno smartphone o una webcam e poi pubblicato sul web. E precisa che il suo utilizzo è aumentato del 17mila per cento nell'ultimo anno.

Pochi mesi dopo, l’American Psychological Association, parla di una nuova patologia: la selfite, cioè l’ossessione per i selfie, una compulsione sintomo di gravi carenze di autostima.

Secondo l’APA (ma ci arriverebbe anche un bambino) dietro questo vero e proprio disturbo ossessivo compulsivo nel fotografare ogni gesto e postarlo automaticamente sui social network, si nasconde l’ansia per l’intimità.

Per gli psicologi (che ho il sospetto siano altrettanto bisognosi di pubblicità e di conferme alla loro autostima per cercare la ribalta con queste sciocchezze) il disturbo si divide in 3 gradi di gravità: borderline (3 scatti al giorno senza pubblicarli), acuta (tre scatti, tutti pubblicati) e cronica (più di sei volte al giorno).

Che dire: gli psicologi possono dire quel che gli pare, ma si fa i selfie il Papa, si fa i selfie il Presidente degli stati uniti d’America, si fanno i selfie i tamarri allo specchio delle discoteche, si fanno selfie le ragazzine esibizioniste mostrando quanti pochi vestiti possono bastare per non essere incriminate per atti osceni in luogo pubblico, si fanno i selfie le coppie dopo il sesso, ormai, in tempi di salutismo, più diffusi della classica sigaretta, si fanno i selfie i radical chic, mettendo davanti alla faccia la copertina di un libro o di un album musicale: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

È una mania raccapricciante, che spesso sfiora il ridicolo. Però c’è da dire che quelli che dicono “mai e poi mai” rischiano di esserlo mille volte di più. Basta un’amica con uno smartphone, qualche bicchiere di troppo e un primo clic li trascinerà nel vortice e la loro intransigenza si trasformerà in un “sempre e per sempre”.

Il fenomeno incarna il nostro bisogno di autorappresentazione costante, qualcosa di vaticinato nelle grandi ucronie letterarie e dai grandi pensatori, come Andy Warhol, oggi realtà grazie a Facebook.

Siamo sempre lì, tracciati dai gps, a dirci costantemente dove siamo, cosa facciamo e cosa pensiamo, nella speranza che interessi a qualcuno. Ci sentiamo tutti vip, abbiamo tutti i nostri lettori di diari (un termine non casuale, un tempo sinonimo di segretezza, oggi altare dell’esibizionismo) i nostri seguaci, il nostro pubblico. E crediamo di aver abbattuto la differenza che ci separava dalle persone “veramente” importanti, ogni barriera tra beautiful people e common people.

È solo un’illusione, le gerarchie esistono, e le foto di cantanti famosi accanto a modelle, pubblicate ossessivamente insieme a piatti al ristorante, privé in discoteca e sedute dall’estetista hanno un valore ben diverso rispetto ai miserabili autoscatti con cui conquistiamo poche manciate di “like”.

Mi viene in mente Gué Pequeno, dei Club Dogo, uno dei rapper più attivi sui social network e probabile addicted dai selfie. In una sua canzone, Business, dice:

“Anche tu sei un rapper? La tua etichetta è twitter?

Ah fai la modella? La tua agenzia è Instagram?

Tu resta al tuo posto tanto non sei in lista fra!”

Non tutti i selfie sono uguali. Alcuni sono più uguali degli altri.
Quello che fatichiamo a capire è che la nostra autorappresentazione non conta nulla, che i social non sono un tripudio di libertà, piuttosto un ipertesto di miserie collettive. I nostri selfie, che ci riempiono di orgoglio e ci trasmettono un piccolo brivido quando li pubblichiamo, perfino per i nostri (pochi) seguaci, di cui siamo seguaci a nostra volta, non sono nient’altro che patetici attimi di inquinamento sullo schermo.

Non credo moriremo letteralmente di selfie, credo che questa mania di pubblicità sia la nuova forma di anonimato della massa. L’unica verra censura può essere solo individuale.

Bastano pochi secondi di autoanalisi prima di postare un proprio selfie: a chi interessa dove sono e cosa sto facendo? Quanto è triste che invece di godermi il momento io stia qui a cercare l’approvazione di qualcuno che me la darà solo se io la ridarò a mia volta? Mi rendo veramente conto che sto solo scimmiottando le vite dorate di pochi privilegiati che postano e postano e nel frattempo si fanno pubblicità e guadagnano un sacco di soldi dando senso al loro postare?
Perché, come dice giustamente Guè Pequeno, quello che fa la differenza, alla fine, è poter dire: “parlami di business, oppure non esiste”.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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