Hipster, gli 'alternativi' di New York
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Hipster, gli 'alternativi' di New York

Nelle Grande Mela sono ovunque, ma da gruppo di nicchia ormai si sono trasformati in una tendenza alla moda

Gli occhiali sono vintage, maxi size e con la montatura spessa, i jeans super attillati , la camicia di flanella a quadri, le vecchie Converse, baffi bizzarri, barba rigogliosa e tanti tatuaggi, a profusione, come adesivi sulla pelle. Il ritratto di un hipster passa attraverso questi macro dettagli, a cui si aggiunge un lifestyle  che va dal consumo di cibi biologici all’appartenenza al mondo dell’arte  e l’ascolto di musica indipendente.

Una tendenza ormai  codificata, così riconoscibile e condivisa da essere diventata l’opposto  di quello che voleva essere alla nascita: anticonformista,  anticonsumista, anticapitalista. Una pura moda.

Fiorita alla fine degli anni ’90 oltreoceano, la culla degli hipster è New York, dove al cultura imperante degli yuppies si oppone quella indie di artisti e musicisti che, per pagarsi l’affitto, lavorano di giorno  nei bar e nei coffee shop e di notte animano quartieri sudici, malfamati  ma effervescenti come il Lower East Side a Manhattan e Williamsburg a Brooklyn.

Hipster” vennero definiti, prendendo a prestito una parola che, sì, contiene nella radice hip (aggiornato, di grido) un riferimento alla moda, ma venne usata per la  prima volta negli anni ’40 per indicare quei bianchi, spesso studenti,  ammaliati ed emuli dello stile di vita dissoluto e dissidente dei  jazzisti neri.

Gli hipster di oggi non hanno nulla a che vedere con quel mondo bebop,  se non la spinta a essere diversi, a distinguersi, e un look  rigorosamente vintage che pesca dagli anni ’40 fino agli ’80; che  vent’anni fa nasceva dalla necessità di spendere pochi soldi per  l’abbigliamento, e quindi fornirsi nei negozi di seconda mano, e oggi non è più che un capriccio, una moda che piace tanto agli americani quanto agli europei, soprattutto agli studenti.

Il negozio “Beacon's Closet” è uno dei capisaldi della Bibbia hipster di New York. In un enorme magazzino fatiscente di Williamsburg vengono  provate, scartabellate e vendute tonnellate di vestiti usati, dalle  grandi firme della moda italiana e francese alle marche più kitsch in  commercio.

La manager  di origini portoricane elenca i cardini del  perfetto outfit di un hipster: “occhiali da vista Buddy Holly, skinny  jeans, T-shirt a a V con i disegni dei cartoni animati, camicia di  flanella, cappello a falde o a bombetta, stivaletti di pelle invecchiata  e allacciati fino al polpaccio. E poi tutto quello che c’è di più  strano e originale da indossare”, ma spiegando,  ammette, “l’ironia è una componente fondamentale degli hipster ma a volte è un’ironia  forzata, unicamente legata al look, che trascende sé stessa per  diventare pura apparenza”.

Per le strade di Williamsburg nessuno  ama essere definito hipster, nonostante sia per definizione l’abitante  di questo quartiere. Per alcuni suona un po’ come un insulto: “il primo  vero hipster è stato Marlon Brando”, dice Florian Altenburg, gallerista  veterano di Williamsburg, “fu lui a sdoganare giacche e pantaloni di  pelle, il vestiario della working class, in un’epoca in cui si indossavano solo vestiti fatti su misura. Oggi è solo una moda, vuota di ideali e di forza”.

Chiedere  infatti per le strade di New York cosa sia un hipster, suscita una  buona dose di ironia e un pizzico di insofferenza, perché per molti si  tratta di una di una posa bohèmienne da figli di papà. Non a caso sul  web spopola ancora il sarcastico video di qualche anno fa sulle Hipster Olympics, le olimpiadi hipster, in cui  gareggiare sono giovani apatici, tutt’altro che atletici e molto  indaffarati a postare foto sui social network, mostrando cappelli buffi,  le ultime scarpe old fashion acquistate e immancabili occhialoni.

Tuttavia, scavare nei meandri di questa cultura, o sottocultura, è una buona chiave di lettura per capire la metamorfosi di New York negli ultimi vent’anni: il rifiorire di downtown Manhattan e Brooklyn, l’impossessarsi di alcuni quartieri che prima erano ghetti in cui nessuno si sarebbe mai sognato di mettere piede - come il Lower East Side, l’East Village, Williamsburg, Bushwick-  ; l’arrivo, a seguito di questa migrazione del popolo dell’arte, di  grandi capitali che hanno innaffiato terreni apparentemente sterili  facendo poi nascere condomini di lusso, supermercati, cinema, bar,  ristoranti, servizi, ridelineando la città da capo a piedi.

E  ancora la gestazione di culture minori. Al Seaportmuseum, un piccolo  museo che documenta la storia marinara di New York, in un disegno degli  anni’20 campeggia la figura Gus Wagner, che nel 1910 fu l’uomo più  tatuato d’America: 264 tattoes impressi sulla pelle, lunghi e folti  baffi all'insù, un po' ribelle e un po' buffo: un padre spirituale degli  hipster, se solo lo vedessero. Naturalmente insieme a Marlon Brando.

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Paola Camillo