Disconnect!
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Gli psichiatri denunciano: la mania degli autoscatti è una turba mentale. Nuovi libri smascherano il meccanismo che ci rende schiavi di social network

Fatta la tendenza, trovato il disturbo. Dopo workaholic e shopaholic, ecco i malati di "selfite". A diagnosticarli è l’American psychiatric association: sei colpito da selfite se provi un "desiderio ossessivo compulsivo di scattare fotografie di te stesso per poi pubblicarle online per compensare la mancanza di autostima e colmare lacune nella tua intimità". La scala di valutazione dell’istituto di ricerca prevede un livello borderline per chi si fotografa tre volte al giorno, acuto per chi fa almeno tre autoscatti e li posta, cronico per chi si pubblica più di sei volte in 24 ore. Fino alla tragedia di Courtney Ann Sanford in North Carolina: giovedì 24 aprile, al volante della propria auto, ha scattato e postato un "selfie" prima di invadere la corsia opposta e schiantarsi contro un camion.

Puntare l’obiettivo su di sé e connettersi: resta da capire se le ragioni che animano le due compulsioni non siano le stesse. Qualche anno fa il sociologo Dalton Conley scrisse un saggio dal titolo Elsewhere, preconizzando per il mondo una nuova generazione di condannati all’Altrove, sempre connessi ma ormai disconnessi da sé. L’esercito degli "intravidui" di Conley, che sono sempre in almeno due posti alla volta dei quali solo uno è reale, sembrava avanzare compatto, ma ora si comincia a notare più di una defezione. Sarà la frammentazione del sé in molti sé di pari importanza. Sarà l’insostenibile leggerezza della dipendenza da comunicazione costante. Saranno ansia e stress dovuti alla perdita di intimità. Di fatto oggi non solo si affaccia una fetta di neoluddisti che decide di sparire dai social e spegnere il cellulare, ma c’è chi ne teorizza la presenza. E allora vuol dire che il movimento comincia a raggiungere proporzioni ragguardevoli.

A censire il drop out dall’Altrove ha cominciato Frances Booth, una delle maggiori esperte globali di "distrazione digitale", che nel suo Felicemente #sconnessi (De Agostini) smaschera il meccanismo che ci inchioda alla rete: si chiama "Fear of missing out (Fomo)", ovvero paura di essere tagliati fuori, un’urgenza compulsiva che ci porta a controllare e controllare ancora mail, post, eccetera. È necessario riconcentrarsi sul reale senza demonizzare il virtuale, sostiene Booth. Ma downshifting digitale non vuol dire spegnere tutto e subito, ma governare e rimodulare: la tecnologia ci serve. Come nelle diete, perché il cambiamento duri va raggiunto poco alla volta. Come nelle dipendenze, per cambiare bisogna capire perché lo facciamo.

Nel 2010, un moderno Henry David Thoreau, il professor David Strayer, Università dello Utah, si fece un weekend lungo a base di disconnessione totale portando con sé altri quattro neuroscienziati a fare trekking e rafting. Era per una ricerca sulla "libertà mentale". Nello stesso anno, Jonathan Franzen scriveva su The Guardian le dieci regole per aspiranti scrittori: "Dubito" annotava "che chiunque abbia una connessione internet mentre scrive possa produrre buona narrativa". I professori americani fanno ricerche su tutto e Franzen è critico quasi su tutto, ma nel frattempo gli obiettori digitali sono aumentati: il colosso dell’informatica Atos dal 2014 proibisce le email tra dipendenti; in Italia la Ferrari chiede ai suoi di incentivare il dialogo faccia a faccia; agli atleti del team britannico di boxe alle scorse Olimpiadi il campione mondiale Amir Kahn ha dato un solo consiglio: spegnere il cellulare; lo scorso Natale la triade mediatica formata da Arianna Huffington, fondatrice dell’Huffington Post, Cindi Leive, direttore di Glamour, e l’anchorwoman Mika Brzezinski hanno lanciato la "Unplugging challenge": no tv, no social media, no email, no cellulare per sette giorni. Tra i proseliti, c’è quello dello scrittore Teddy Wayne che ha raccontato al New York Times la sua esperienza di "digital detox". Sull’esempio dell’anno di ritiro spirituale offline del giornalista Paul Miller raccontato sul sito The Verge, è arrivato anche il caso italiano: Entro 48 ore di Giovanni Ziccardi (Marsilio), cronaca di una fuga durata sei mesi. Ziccardi si dice guarito dalla "sindrome da vibrazione fantasma" e dal multitasking ossessivo grazie a espedienti come un unico account e disattivare la geolocalizzazione. Siamo sulla buona strada? Forse, scrive Ziccardi, quando i videogame di gare motociclistiche ci spingeranno a provare una vera Harley-Davidson. O quando ci sentiremo liberi di ascoltare il rumore del mare e scegliere: postarlo agli amici o conservarlo solo in quella che è la memoria migliore, la nostra.

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