Scipio Slataper, o la debolezza della forza
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Scipio Slataper, o la debolezza della forza

Ah, fratelli, come sarebbe bello poter essere sicuri e superbi, e godere della propria intelligenza, saccheggiare i grandi campi rigogliosi con la giovane forza, e sapere e comandare e possedere! Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo di esser giusti con noi, come noi cerchiamo di essere giusti con voi. Perché noi vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete. Noi vogliamo amare e lavorare.


Il 3 dicembre di 99 anni fa moriva sul monte Podgora, colpito alla gola durante una rischiosa missione di pattuglia per cui si era offerto volontario, Scipio Slataper. Aveva ventisette anni; i suoi uccisori, militari austro-ungarici, gli erano connazionali.
Scipio Slataper era nato a Trieste. La sua famiglia, la sua stessa esistenza, derivavano come quella di molti triestini dall'incontro dell'emigrazione slava con il commercio adriatico; un poetico nome sloveno o croato, dunque - Pennadoro, come lo tradurrà lo stesso Slataper nella sua opera maggiore, o più slataperiana -, e un dialetto veneziano come lingua degli affetti e degli affari. Trieste, la Trieste moderna e austriaca delle ricchezza e dei traffici, è nata così: la furbizia e la tenacia dei mercanti a fondersi con l'energia inesauribile, con la forza giovanile e barbara degli emigranti friulani, tedeschi e soprattutto slavi.
Quello che manca, nella genesi di Trieste, è la coltura: la città non cresce da un movimento proprio, che potrebbe giustificarne una tradizione, né da una fondazione eroica, che le darebbe un'identità; si allarga, invece, come un operoso alveare. Quando ha i soldi, e ne ha presto e tanti, li dona a musei, istituzioni, teatri: ma resta distante da quella cultura che non conosce e che in fondo non ha a che fare con la città.

Trieste è la mia patria. Io scopro in me ogni giorno di più Trieste. Trieste che è l'ostacolo e può essere il segno della vittoria. A Trieste c'è da far tutto: agire. È un punto d'incrocio di civiltà: studiare sul vivo. Ha bisogno di maestri: insegnare. Contiene inquieta, gli elementi che inquietano noi moderni: bisogna equilibrarli realmente. Perché io posso illudermi d'esser calmo, io scrivendo in italiano e leggendo libri tedeschi, guardare alla nazione con coscienza d'umanità, ma finché io non so attuare, render propagabile questo mio equilibrio, esso non esiste in realtà. Finché, anche, io non so divorare tutta la complessità della vita umana, assistendo partecipe alle sue forme apparentemente contraddittorie, commercio e letteratura, salotto e città vecia, carso e lastricato, sloveni e italiani, io non sono poeta.

L'intuizione di Scipio - nato in una famiglia irredentista; non è infrequente, nella Trieste di fine Ottocento, che i più ardenti italianofili portino nomi sloveni o tedeschi - è che non si può imporre una cultura tradizionale, per certi versi stanca e fiacca, a una città che non ha tradizioni ma che ha solo gioventù e forza. Il sapere triestino dovrà nascere allora da Trieste, da una scuola superiore di commercio che non sia di scienza pura, ma neanche di immediata pratica; una scuola che racconti e spieghi l'economia attraverso la storia (e la geografia). Da essa, inevitabilmente e in modo vivo, sarebbe scaturita la vera cultura di Trieste: una cultura legata a doppio filo alla prosperità economica. E questa prosperità avrebbe portato a sua volta in Austria e nel mondo il nome di Trieste e il prestigio della sua italianità, mostrando, non imponendo, l'appartenenza della città sul margine a un mondo culturale, a una nazione italiana fatta non di lettere ma di storia e di bellezza.
Ma detta così pare che Slataper sia un teorico. In realtà non lo era e non poteva esserlo; e non tanto perché nessuno che muoia a ventisette anni può esser definito in nessun senso un teorico, ma soprattutto perché Slataper non ha ideologie, non ha sicurezze, non ha - da triestino - tradizioni su cui poggiarsi: la sua unica certezza sentita è la sua forza e la sua gioventù, la sua barbarie che fanno di lui un estraneo tra i letterati fiorentini che frequenta - si laurea in quella città, dove collabora per anni da protagonista alla Voce di Prezzolini - e della sua città un unicum nella storia italiana. Il giovane Slataper vede tutto questo; crede che Roma sia Bisanzio, che l'Italia abbia bisogno di barbari, e pensa per un momento di poter essere lui quel riformatore che odia i riformisti, quel costruttore che ha prima bisogno di distruggere.

Quando narreranno la mia vita diranno: Fu un vivificatore: nell'opera d'uomo, d'artista. E il mio capolavoro sarà di vivificazione.

Non manca la forza, a questo sloveno che parla italiano (quel bellissimo italiano che è il dialetto triestino, un veneziano intrecciato di stranismi e dalla cadenza incerta), a questo italiano di sangue giovane, né la coscienza di essa.

Ho ventun anni, e sono forte, non solo, ma nei movimenti miei e nei miei occhi ride la cordialità spensierata di questa mia forza, anzi quasi la superbia di uno che non sente l'ostacolo. Spesso incontrando sul mio passo una panchina, invece di deviale, raccolgo sul mio petto la lunga mantella e salto imperturbato, senz'arrestare il cammino: i monelli ridono di questo lor fratello che non conoscono...

Ma ciò che manca a Slataper, da triestino, da idealista, da anarcoide ingenuo, e in fondo da uomo troppo buono, è il senso di quella forza, e il coraggio di indirizzarla. Il suo amore, che è tutta la sua forza, non sa a cosa dedicarlo, se non a un indistinto attivismo, a un indistinto "lavorare" che è tutto e niente, e che soprattutto non mette mai in discussione in nessun modo lo status quo. Anche, si noti, quando lo status quo varia in maniera sensibile, e quando le classi dominanti sostituiscono con un tratto di penna la guerra alla pace.
L'individualista Slataper non ha niente da proporre in sostituzione di quello status quo, d'altronde; e finisce dunque, anche prima della guerra, ad annullare la propria individualità in una massa, lui che cercava nobilmente di dedicarsi alla collettività (ma che non ha mai saputo come). Quando poi si sente l'odore della guerra, Slataper rinuncia anche alla propria intellettualità, che pure è il suo tesoro massimo, ma che senza guida e meta è effettivamente inutile.

È un'illusione credere che, in regime di neutralità, voi [intellettuali] possiate convincere operaio e borghese a volere la guerra, mentre spinge l'aratro e si corica, come se nulla fosse, o la gente avesse tempo di pensare a ciò che se verrà, verrà. Se soltanto voi, intelligenza, e per conto vostro (...), siete riusciti a convincervi e quasi ormai avete l'istinto delle necessità vitali della nazione nel mondo, voi non potete pretendere e, soprattutto, non dovete illudervi di applicare oggi all'anima del lontano popolo le vostre conclusioni. (...) Non c'è propaganda che persuada un popolo alla guerra. La guerra è un'imposizione e un'eroica rassegnazione. La guerra è un comando. Il comando verrà. E la nazione sarà un esercito.

Quando il comando viene, il cittadino austriaco Scipio Slataper rientra in Italia per combattere. Non è il coraggio fisico a mancargli; ma è forse la mancanza di coraggio intellettuale, è forse una certa timidezza, ad obbligarlo a pensare conformemente, lui che qualche anno prima vedeva le cose assai diversamente, e descriveva l'italianità di Trieste come una missione di pace e di prosperità, non come una conquista o un'imposizione.
Il 3 dicembre 1915, sul Podgora, il giovane intellettuale triestino Scipio Slataper paga con la morte il proprio coraggio fisico. Ma paga anche, forse, colpito da uomini di cui condivide la cittadinanza, il sangue, il suono stesso del cognome, la difficoltà di essere italiani sul margine: l'impossibilità di essere compiuti, l'inferiorità storica di chi è giovane e senza cultura, e non sa far valere la propria forza, la propria bellezza, la propria gioventù. Scipio Slataper muore giovane e bello; muore non perché è italiano e si sente tale, sia pure di nome e sangue estraneo, ma perché non sa dire la propria italianità in termini nuovi e diversi. Muore da triestino, incompreso fino in fondo soprattutto a se stesso.

Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.
Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.
Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; - ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male.
Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d'imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch'io confessi d'esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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