Rifiuti, il grande bluff del riciclo
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Scienza

Rifiuti, il grande bluff del riciclo

La Cina ha bloccato l'import di scarti di plastica, carta e di altri materiali. Mettendo in crisi un sistema che scarica altrove il riciclaggio della spazzatura

Diligenti, separiamo ogni giorno i nostri rifiuti, convinti che il vecchio giocattolo di plastica servirà a costruire una nuova panchina e che la copia del giornale si trasformerà in carta da pacchi. Ma è solo un bellissimo sogno: nella realtà, una quantità enorme di carta, plastica, tessuti e altri scarti non è affatto reimmessa nel ciclo produttivo e, fino alla fine dello scorso anno, veniva caricata su grandi navi e spedita in Cina. La spazzatura era sì riciclata, ma a 7.500 chilometri di distanza da casa nostra.

Ad aprire uno squarcio sulla sconcertante situazione del riciclo dei rifiuti non solo italiani, ma mondiali, è stata la decisione di Pechino annunciata il 18 luglio 2017 all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) di non accettare più l’importazione di 24 tipi di rifiuti, dalla plastica alla carta fino alle scorie prodotte dalla lavorazione dell’acciaio e dal settore tessile. Il divieto è scattato il primo gennaio di quest’anno. Non solo. Dal 31 dicembre 2018 non potranno più entrare in Cina altre 16 famiglie di scarti, come le carcasse di auto compresse o i pezzi di navi demolite e dal 31 dicembre 2019 il divieto si allargherà a 16 ulteriori tipologie, fra le quali i rottami di acciaio inossidabile. 

Un gesto dalle conseguenze catastrofiche: solo lo scorso anno Pechino ha acquisito dall’estero 7,3 milioni di tonnellate di scarti di plastica, il 72,4 per cento dei rifiuti plastici esportati dai Paesi di tutto il mondo. Che ora restano negli Usa, in Europa, in Giappone. Perché il governo cinese ha alzato il muro? L’obiettivo dichiarato da Pechino per giustificare la misura è controllare l’entrata sul proprio territorio di rifiuti che possono contribuire all’inquinamento ambientale. Secondo Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, «la Cina importava molti rifiuti da riciclare perché aveva una grande fame di materie prime. Questi materiali tornavano poi da noi sotto forma di imballaggi e di “cineserie” che troviamo nei bazar delle nostre città. Pechino accettava anche tante porcherie che arrivavano dall’Occidente. Ora però ha detto basta, ha innalzato il livello qualitativo richiesto alle materie prime seconde, in sigla Mps, per migliorare la propria produzione».

I paesi industrializzati mandavano in Cina, mediamente, la metà della loro spazzatura differenziata, come la plastica o la carta. Come ricorda Antonello Ciotti, presidente del consorzio Corepla che si occupa del riciclo degli imballaggi di plastica, «nel Regno Unito non si ricicla quasi niente, si mandava quasi tutto in Cina». Le preoccupazioni maggiori riguardano la plastica: ogni anno l’Europa produce 25,8 milioni di tonnellate di rifiuti di questo tipo. E solo il 31 per cento viene raccolto e avviato a riciclo, in parte in Cina. Il resto finisce nei termovalorizzatori (la plastica è un ottimo combustibile), in discarica o nell’ambiente. Dopo il blocco all’export dei rifiuti in Cina, ora i magazzini di stoccaggio più o meno improvvisati si moltiplicano in tutta Europa in attesa di trovare una soluzione. «E i prezzi del conferimento ai termovalorizzatori» aggiunge Ciotti del Corepla «sono aumentati del 70 per cento». «I rifiuti di plastica una volta erano un business abbastanza redditizio per la Cina, perché potevano essere usati per produrre e rivendere manufatti di plastica riciclata» spiega Amy Brooks dell'Università della Georgia, coautrice di uno studio sul tema. «Ma con l’aumento della produzione globale di plastica e il suo uso sempre più diffuso, la quantità dei rifiuti è letteralmente esplosa e, in parallelo, la loro qualità media è andata peggiorando, tanto da renderne sempre più difficile e meno vantaggioso il riciclaggio».

Anche l’Italia è stata investita dall’emergenza. Pur avendo un sistema di riciclo dei rifiuti particolarmente avanzato (il 71 per cento del vetro e l’83 per cento della plastica immessi al consumo tornano al riciclo) i depositi sono strapieni e montagne di carta da macero e di vetro si accumulano sperando nell’arrivo di un improbabile compratore. Nel 2016 in Italia sono state raccolte 6,5 milioni di tonnellate di carta da macero e l’industria cartaria ne ha assorbito solo 4,9 milioni: la Cina copriva la differenza e ora questo sfogo non c’è più. Non è un caso che gli incendi in depositi di stoccaggio sono sempre più numerosi: 200 negli ultimi due anni con gravi danni per l’ambiente.

La crisi provocata dalla Cina nel mondo dell’immondizia mostra tutti i limiti di un’economia circolare in cui molto raramente il cerchio si chiude davvero. Prendiamo il caso del Corepla, uno degli esempi più virtuosi a livello europeo: il consorzio ritira tutti gli imballaggi di plastica della raccolta differenziata su tutto il territorio nazionale (e quindi non il vecchio giocattolo, che finirà nell’inceneritore). Nel 2017 ha raccolto più di un milione di tonnellate di rifiuti, quasi il doppio rispetto a dieci anni prima. Peccato che solo una parte di questa plastica interessa al mondo produttivo (in particolare il Pet delle bottiglie, che fa gola al settore tessile) mentre il 40,3 per cento non può essere riciclato, come per esempio i film che proteggono le confezioni di prosciutto o parmigiano: viene perciò utilizzato per produrre energia nei termovalorizzatori o nei cementifici.

E dire che l’Italia è molto avanti nelle tecnologie del riciclo: produce i sistemi più avanzati d’Europa per il riconoscimento automatico delle differenti famiglie di plastica e per la loro separazione. Il gruppo A2A ha inaugurato il 9 novembre scorso a Cavaglià in provincia di Biella un impianto che consente di trattare 45 mila tonnellate annue di materiale, selezionando e dividendo 13 tipi di plastiche differenti, che possono così essere avviate al riciclo e diventare nuovi oggetti. Ma chi li compra questi oggetti?
Il problema, spiega Ciafani di Legambiente, è che «non esiste un vero mercato dei prodotti riciclati». Nel caso della plastica, ma anche di altri materiali, gli ostacoli maggiori sono tre, come sottolinea un rapporto dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico: le materie plastiche riciclate vengono trattate come sostitutive di quelle primarie, senza che vi sia una domanda separata. Ciò lascia le prime in balia delle tendenze dei mercati; il prezzo è in gran parte determinato da quello delle materie plastiche primarie, legate a loro volta ai prezzi del petrolio, piuttosto che dai costi di raccolta, selezione e trattamento dei rifiuti; il settore del riciclaggio della plastica è più piccolo e più frammentato rispetto all’industria primaria, il che rappresenta un grande svantaggio in termini di economie di scala e capacità di assorbire gli shock del mercato, come ad esempio il recente crollo dei prezzi del petrolio.
Come uscirne? Bisogna inventarsi dei meccanismi per rendere appetibili i beni realizzati con materiale riciclato. Per esempio dal 2015 il Parlamento italiano, caso quasi unico a livello mondiale, ha approvato una serie di norme per i cosiddetti «appalti verdi»: le amministrazioni pubbliche sono obbligate a favorire negli acquisti i prodotti riciclati, come carta, panchine o sistemi di illuminazione. Però, come ricorda Legambiente «la mancanza di formazione nella pubblica amministrazione è un freno a qualsiasi iniziativa imprenditoriale e molti bandi continuano a uscire col massimo ribasso, senza far riferimento a nessun criterio minimo ambientale».
E poi dovremmo cercare di produrre imballaggi e oggetti che possano davvero essere riciclati e trasformati in materia pregiata. Dei 7 milioni di tonnellate di plastica consumati ogni anno in Italia, 2,2 servono per gli imballaggi e di questi, come abbiamo visto, più del 40 per cento non si riesce a riutilizzare: troppo costosa l’attività di separazione dei vari tipi di plastica. Quindi la ricerca deve andare avanti per studiare involucri che mantengano la qualità dei cibi nel tempo ma che allo stesso tempo possano essere recuperati. E puntare sempre di più sulle plastiche biodegradabili, l’ultima frontiera per eliminare il problema dell’inquinamento dei mari.



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Guido Fontanelli