Scoperto da Steven Spielberg, apprezzato da Harrison Ford e Oliver Stone, è stata la giovane promessa di Hollywood, ma ha deluso tutti lasciandosi andare a droga e alcool. Fino a quando una sceneggiatura «familiare» e un attore down (ora suo amico) l’hanno riportato, felicemente, sul set. Storia di una rinascita.
A 21 anni Shia LaBeouf era il nuovo principe del regno di Hollywood, sponsorizzato dal sovrano in persona, Steven Spielberg, che gli aveva affidato non solo blockbuster di sicuro successo come la serie Transformers, ma addirittura la pesante eredità del figlio di Harrison Ford, e quindi del futuro della saga, nel quarto episodio di Indiana Jones e il regno di cristallo.
E, fosse servita una conferma, anche Oliver Stone gli aveva dato chiavi e destino di un sequel importante, Wall Street – Il denaro non dorme mai. Era il 2010. Da allora se ne sono praticamente perse le tracce. Shia è diventato il simbolo dell’attore maledetto, del ragazzaccio viziato e incontrollabile. Nuovo Harrison Ford, nuovo Johnny Depp? Macché: il suo modello è diventato quello proverbiale di James Dean, ribelle senza una vera causa. E all’ultimo stadio. La sua autodistruzione è passata attraverso giudizi ingrati sui suoi mentori, a cominciare proprio da Spielberg («Credevo di lavorare col più grande genio di tutti i tempi e invece mi sono trovato a inseguire cattivi di metallo come se fossi un effetto speciale», al che il commento di Harrison Ford è stato un lapidario: «Shia è un fottuto moccioso idiota»); attraverso scazzottate con i partner (Tom Hardy, sul set del film Lawless); racconti a luci rosse di avventure vere o millantate con varie colleghe, da Megan Fox a Rihanna. Poi, un giorno firma un corto da regista e si scopre che non solo l’aveva preso di sana pianta da un fumetto di Daniel Clowes, ma che nemmeno aveva perso tempo a chiedergli il permesso. Senza parlare della quantità di incidenti automobilistici, risse, arresti, ricoveri in rehab e clamorosi maldestri tentativi di chiedere scusa in modo creativo, attraverso il copia e incolla di frasi di personaggi famosi con simili problemi d’immagine, a cominciare dal campione di golf Tiger Woods. Oppure attraverso una serie di iniziative bizzarre come quella di Cannes, dove si era presentato con una busta di carta in testa con scritto «Non sono più famoso» e aveva passato 24 ore in un ascensore riprendendo tutto quello che la gente gli diceva. Ecco perché è assolutamente sorprendente il suo improvviso ritorno, con due film molto personali che, causa Covid-19, hanno saltato l’uscita in sala e sono disponibili solo online. Uno è il dramma Honey Boy, presentato l’anno scorso alla Festa di Roma, che racconta parte della sua infanzia, in cui Shia ha il coraggio di interpretare addirittura suo padre (è sulla piattaforma Chili). L’altro, In viaggio verso un sogno (on demand) è un piccolo e tenero film, pieno di buoni sentimenti che racconta la storia di un ragazzo down (Zack Gottsagen) che evade dalla casa di cura per iscriversi a una scuola di wrestling in Florida, e finalmente esaudire l’impossibile desiderio che culla fin da bambino: diventare un campione imbattibile, a dispetto della sua condizione fisica. Shia è un pescatore di granchi in fuga, che lo incontra per caso e ne diventa più che un padre putativo, un fratello maggiore.
Cosa ha pensato quando ha letto la sceneggiatura?
Ho accettato senza averla letta, mi aveva telefonato un collega, Ben Foster, dicendomi che c’era un film fantastico che lui non poteva fare perché sua moglie era incinta e lui non voleva mollarla prima del parto, aspettava un figlio e non voleva sparire, e allora aveva pensato a me. A uno come Ben non si dice di no…
E l’esperienza è stata quella che si aspettava?
Meglio. È un film che mi ha cambiato veramente la vita.
In che modo?
È un dramma con la levità di una favola, un film assolutamente positivo e io ne ho bazzicati molti… Con Zack, che sembra un adolescente ma ha 34 anni, abbiamo vissuto insieme più che lavorato. E ho avuto in regalo sentimenti che avevo dimenticato. Per il cinema era un esordiente, ma aveva una lunga esperienza teatrale. Mi ha confessato senza il minimo imbarazzo che aveva sempre sognato di diventare una star del cinema.
Zack dice che lei è diventato il suo migliore amico. Che cosa vi ha unito anche fuori dal set?
È un ballerino sorprendente, e io modestamente me la cavo. E poi dice sempre quello che pensa, non sa mentire. Una dote che mi ha spesso messo nei guai.
Lo Shia di ieri, il ragazzaccio, che avrebbe detto di questo film?
Che è il migliore della mia carriera, perché i baci che mi sono scambiato con Dakota Johnson erano dolcissimi…
Quando ha finito il film si è sentito veramente diverso?
Sì, c’erano giorni in cui ridevo da solo. Ho promesso a Zack che avrei affrontato la vita in maniera più soft. Mi sento decisamente più calmo. Subito dopo ha girato un altro film personale e coinvolgente, Honey Boy, in cui ha interpretato il ruolo di suo padre, ex veterano del Vietnam, alcolista e tossicodipendente. È stata una terapia nel vero senso della parola. L’avevo scritto durante un periodo riabilitativo in un istituto psichiatrico. Rivivere l’infanzia ha spalancato porte rimaste da tempo sprangate. Per la prima volta, sono riuscito a perdonare mio padre. Rabbia e odio sono facili, comprendere il prossimo è la conquista. Al tempo di Honey Boy non ci parlavamo da sette anni.
E come l’ha convinto a darle il permesso di fare il film?
Ho puntato sulla sua vanità… Gli ho detto che io ero solo lo sceneggiatore, ma il suo ruolo lo avrebbe interpretato Mel Gibson, uno dei suoi idoli. Una piccola bugia, perché l’esperienza ha fatto bene a tutti e due.
Durerà?
Spero di sì.
