Bryce Dallas Howard, dopo una carriera da attrice, debutta alla regia sulle orme di suo padre Ron. Maude Apatow, che recita nei film di Judd da quando aveva otto anni, ora ha un ruolo da protagonista nel film Il re di Staten Island. A dirigerla
è sempre il babbo: «Questa volta però» rivela a Panorama, «ho sostenuto un vero provino. Come fanno tutti».
Un giorno a New York sul set de Il re di Staten Island, il regista Judd Apatow disse al protagonista Pete Davidson una frase innocente: «Stasera passo a prendere le mie figlie e le porto a cena». La risposta, pronunciata con un filo di voce e la faccia scura, fu inaspettata: «Deve essere una cosa piacevole. Siete proprio fortunati». Apatow, 52 anni, in perfetto sincrono col titolo del suo nuovo film ambientato in uno dei distretti di New York, è definito il «il re della commedia americana», avendo negli ultimi 20 anni diretto, sceneggiato o prodotto, grandi successi comici (Molto incinta, 40 anni vergine, Un disastro di ragazza, Strafumati, Le amiche della sposa) e dato il primo ruolo cinematografico a un’intera nuova generazione di attori brillanti come Steve Carell, Seth Rogen, Jonah Hill, Amy Schumer e proprio Pete Davidson, 26 anni, il più giovane membro del popolarissimo show televisivo Saturday night live.
Ma Il re di Staten Island (dal 30 luglio online e anche in qualche sala), più che una semplice commedia è un ibrido definito «dramedy», perché alterna sapientemente risate e lacrime. Ricalca la storia vera di Davidson che perse il padre, pompiere, l’11 settembre 2001, nel crollo delle Torri gemelle, un trauma che gli ha causato disordine della personalità, depressione e istinti suicidi. Nel film c’è anche Maude Apatow, 22 anni, figlia del regista, che recita col padre da quando ne ha otto (sua sorella minore Iris, ha invece cominciato a cinque). Motivo per cui il set de Il re di Staten Island è diventato una seduta di psicanalisi familiare.
E nemmeno l’unica, perché Judd Apatow è anche apparso nel documentario Dads (disponibile su Apple Tv+), diretto dall’attrice Bryce Dallas Howard, al suo esordio da regista. Produttore del film suo padre, Ron Howard, che era anche una delle celebrity intervistate nel film. Come dire che nell’epoca del terremoto delle rivendicazioni di genere in stile #Metoo, ai tradizionali «figli di» da sempre in voga nel cinema, si sono sostituite le «figlie di». Un termine che, però, alla Howard e alla Apatow va stretto. A spiegarlo a Panorama sono proprio loro, padri e figlie.
Judd Apatow: «Tutti vogliono sapere da me due cose: come sia vivere in una famiglia in cui qualunque cosa succede in casa può finire in uno dei miei film. E cosa ne pensano le altre Apatow che sono tutte attrici: mia moglie Leslie Mann, e le mie figlie Maude e Iris. A me francamente sembra una cosa normale: la prima regola degli sceneggiatori di cinema non è forse scrivere di quello che sai? C’è anche da dire che io sono l’unico che trova interessanti certi fatti e discussioni, un po’ perché non tutte le mie coinquiline mi trovano così divertente… Certo, qualche volta ho dovuto convincerle oppure chiedere l’autorizzazione, ma il più delle volte l’ho fatta franca senza problemi».
Judd Apatow è sposato da 23 anni e dice di non aver mai superato del tutto il trauma del divorzio dei suoi genitori quando aveva 12 anni. Come padre si considera «assolutamente normale, attento, per niente severo. Su una regola io e Leslie siamo stati inflessibili: Maude e Iris, fino alla maggiore età, dovevano lavorare con me o con i miei amici. Il cinema può essere un mondo rischioso, si è esposti a mille percoli (non solo sexual harassment) a cominciare dai possibili rifiuti che possono diventare deleteri per l’autostima».
Maude Apatow: «Tutto quello che ho imparato lo devo a mio padre» dice Maude, che deve il suo nome a uno dei film preferiti di lui, Harold e Maude. «È il mio mentore, soprattutto per la tecnica; mia madre invece la definirei la mia migliore amica. Recitare è stato a lungo un gioco, non privo di momenti fastidiosi, come quando per tre volte consecutive la mia parte fu tagliata e per vedermi bisognava aprire gli extra dei dvd. Credo di essere diventata veramente un’attrice quando ho cominciato a lavorare con altri registi, fuori del controllo di papà (come nella miniserie Hollywood e nel serial Euphoria). È per questo che per Il re di Staten Island ho preteso di avere un regolare provino: l’ultima volta che ho lavorato con lui avevo 14 anni, non volevo si potesse più parlare di nepotismo». Maude sta anche scrivendo la sua prima sceneggiatura, dopo aver già diretto un corto.
Bryce Dallas Howard. Dopo particine in Apollo 13 e Il Grinch non collaborava da 20 anni con suo padre Ron, ex ragazzo prodigio nella serie cult Happy Days e poi regista e produttore pluripremiato. «Ho cercato di fare una carriera il più indipendente possibile» racconta a Panorama l’attrice, protagonista di Jurassic world e con il ruolo di mamma di Elton John nel film musicale Rocketman. «Quando nel film Dads mi è venuta l’idea di celebrare i padri, che sono un po’ i militi ignoti della nostra società, lui non poteva proprio mancare. È un modello da imitare, perché quando ancora non andava di moda ha condiviso con mia madre ogni passo della nostra vita familiare, pur lavorando sempre moltissimo».
Ron Howard: «Attore a 18 mesi, marito a 21, regista a 23, padre a 27, premio Oscar a 48, nonno a 53, proprio per merito di Bryce Dallas. Forse era venuto il momento di ricordare che sono semplicemente suo padre, nulla di più. E ne sono molto fiero». Poi rivela un particolare inedito: a parte i capelli rossi, gli Howard hanno un’altra cosa in comune: «Il secondo nome di tutti i nostri figli deriva dal luogo in cui sono stati concepiti. Perciò Bryce si chama anche Dallas per la città del Texas, le gemelle Jocelyne e Page nel nome hanno anche la parola Carlyle per via dell’hotel dove alloggiavamo, e Reid si chiama anche Cross per una strada non lontana da casa nostra. Tecnicamente avrebbe dovuto chiamarsi Volvo, perché quell’auto fu la nostra alcova».
Ma la battuta più illuminante del documentario Dads non è sua né di Judd Apatow bensì di Will Smith: «Quando tornai a casa dopo la nascita del primo figlio mi resi conto (con terrore) che il mio nuovo televisore aveva un manuale di mille pagine, mentre ad accompagnare il mio bimbo non c’era nemmeno una riga di istruzioni».
