A Firenze c’è la mostra più importante mai realizzata in Italia su Olafur Eliasson, il primo a trasformare in opere una nuova condizione dell’essere: quella degli umani di fronte al cambiamento climatico. Colori, vetri, fonti luminose le più bizzarre spingono lo spettatore a creare la propria esperienza, oltre le paure e le ossessioni individuali, come spiega lui stesso in questa intervista a Panorama.
L’opera d’arte produce realtà. È l’idea che anima da sempre le opere di Olafur Eliasson, l’artista islandese-danese che ha saputo per primo capire come la crisi climatica («La crisi delle crisi», così l’ha definita) ci avrebbe messo in ginocchio. Le «cassandre» raramente vengono ascoltate, ma lui da anni ha scalato l’arduo mondo dell’arte con le sue scarpette da trekking di un verde improponibile e la barba da pescatore nordico. Ora Palazzo Strozzi, a Firenze, lo celebra con la più grande e importante mostra mai realizzata in Italia. Un percorso dove il visitatore e il museo sono loro stessi parte integrante. In un gioco di luci, riflessi, ombre fugaci, lampade a monofrequenza capaci di trasformarci in insignificanti omini grigi. Un viaggio attraverso il tempo che inizia con la sontuosa installazione site specific nel cortile rinascimentale. Under the weather è una struttura ellittica di 11 metri sospesa sopra le teste dei visitatori.
Poi si sale e ci si perde tra lavori nuovi e classici: dal caleidoscopio lisergico ai numerosi specchi. Che sembrano quelli di cui scrive Jorge Luis Borges: «Gli specchi, e la copula, sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini». Si entra in sale buie abitate solo da una nebbia sottile (Beauty, iconica ed emozionante), «dove ciascuno può trovare il proprio arcobaleno», come spiega Arturo Galansino, curatore e direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi. Le grandi bifore sono le protagoniste di Tomorrow. Inquietanti e misteriose, come in un teatro di ombre cinesi. «Dalle finestre proviene la luce e nello stesso tempo sono le lenti con cui guardiamo la realtà. Quei vetri mi hanno sussurrato la Storia. Qui è nato il Rinascimento, l’Umanesimo che ha portato all’Illuminismo e poi alla riforma di Martin Lutero, fino all’Uomo Moderno. Siamo il prodotto di tutto questo. Ora sta a noi scegliere le lenti da usare per capire il nostro tempo» dice Eliasson, seduto nel salotto di un hotel fiorentino dalla bucolica tappezzeria a fiori. Davanti a un bicchierone di Coca-Cola con ghiaccio e limone.
Lei parla di anticapitalismo, di un mondo che ha bisogno di una presa di coscienza e poi beve solo questa bevanda, prodotto simbolo di tutto il contrario. Non le sembra una contraddizione?
Sono vittima delle mie dipendenze. Tra queste c’è la caffeina e le bevande gassate. So bene che quest’ultime non aiutano l’ambiente e la ringrazio di avermelo fatto notare. Tuttavia sono orgoglioso di dire che sono riuscito a battere la mia dipendenza più pesante, quella dall’alcol. Ho smesso di bere. Aveva troppa influenza nella mia vita.
È un aspetto molto intimo quello di cui sta parlando.
So che si tratta della mia vita privata. Ma vorrei che, se questo articolo verrà letto da chi ha lo stesso problema, sapesse che c’è una via d’uscita dall’alcolismo. Non pensate di essere alla deriva. Potete trovare chi vi aiuta. Non è necessario fare questo percorso in salita da soli. E poi bisogna parlarne: è importante togliere il tabù.
Il titolo della mostra è emblematico: Il tuo tempo. Non trova che questo nostro tempo sia tremendamente individualista e narcisista?
Provo a non misurare mai quello che non mi piace e mi concentro su ciò che amo. Preferisco provare gratitudine piuttosto che puntare il dito contro quello che non sopporto. Trovo più motivante pensare alle cose positive. E poi mi ritengo realista. Se sono insoddisfatto per qualcosa cerco di cambiarlo. È un sottile equilibrio tra il non parlare solo di quello che vorrei fare, ma di quello che posso fare. E sto facendo.
Ha creato una mostra dove l’arte ci aiuta a ripensare la Storia. Perché ha scelto Firenze?
Ho voluto ritornare alle origini dei miei insegnamenti. Sono cresciuto nella società del welfare danese. Come europeo occidentale mi sento il prodotto del Rinascimento.
Com’era la sua famiglia?
I miei genitori erano immigrati islandesi in Danimarca non particolarmente benestanti, ma non ho mai sofferto durante l’infanzia. Anzi, ho avuto il privilegio di vivere in una parte di mondo dove l’istruzione e la sanità erano gratuite. Una società i cui successi e le cui qualità riconosco assolutamente, ma tutto è stato creato a spese di chi non aveva la medesima stabilità economica, la stessa istruzione o la possibilità di curarsi. Sono consapevole del vantaggio che ho come maschio bianco e so di parlare da questa posizione. E purtroppo di essere stato cieco davanti a chi non ha avuto le stesse opportunità. E questo è un fatto non discutibile.
Cosa pensa che si possa fare?
Tutto ciò ha portato all’Unione Europea. E io sono assolutamente a favore dell’Europa. Anzi ero molto contrario alla Brexit. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo capito che il successo della modernità ha un suo prezzo.
Quale?
Lo sfruttamento di nazioni non europee, il colonialismo, la schiavitù, il comportamento inumano verso Paesi che avevano una visione diversa. E quando dico che mi sento estremamente avvantaggiato, e lungi da me il voler cambiare la qualità del welfare danese, non posso tuttavia ignorare che tutto ciò è stato creato a spese di qualcun altro.
Allora come dovremmo agire, noi che siamo dei privilegiati?
La prima cosa è non dare mai per scontata la democrazia, né la Natura. Tutto dipende dal nostro impegno critico. Sarebbe il caso di dire no all’egoismo e sì all’altruismo. Invece il problema della Ue è che si sente in dovere di esportare i suoi valori.
Sembra parlare come un monaco buddhista, è un praticante?
Ho troppo rispetto del Buddhismo per definirmi tale. Eppure penso che la vita contemplativa dovrebbe avere un posto più rilevante nell’esistenza. La visione del tempo che viviamo è razionale, successi e valori vengono continuamente quantificati. Eppure ci sono cose che è impossibile soppesare, come la felicità.
Nel nostro tempo esiste la felicità?
Sì, penso che si possa provare. Consiste nel dare priorità, in modo più consapevole, a ciò che pensi possa avere un senso. È composta da piccole cose: calma, pace. Eppure molti sono concentrati solo sulle mete raggiunte o da raggiungere. Quando si guarda al passato si parla dei successi, quando immaginiamo il futuro ci tormentiamo intorno ai desideri. Ma la felicità è nel presente, nel «qui e ora». È qualcosa difficile da misurare, come l’amore.
Si è innamorato, a volte?
Sì, certo. L’amore è una parte essenziale della mia vita. Dire «ti amo» può suonare kitsch, come scrisse Umberto Eco, ma non cambia il fatto che continuiamo a innamorarci. Anche se è diventato sempre più un sentimento commercializzato. Per me amare significa mettere in dubbio il patriarcato, il maschilismo. Mettermi in gioco, riconsiderando il mio comportamento e pensando che ognuno di noi a piccoli passi può contribuire a cambiare il mondo. Nei suoi lavori più che la parola amore appare «compassione».
Che cosa significa?
Sono onorato che pensi che io abbia una definizione di un concetto così profondo. Per arrivare alla compassione, su cui ho tenuto un seminario nel mio studio a Berlino, bisogna separarla dalla simpatia e dall’empatia. La compassione è: trascendo il tuo dolore e agisco con amore. Come un chirurgo, che deve essere contemporaneamente presente nelle sofferenze, ma capace di curare.Anche a costo di tagliare la gamba a un soldato ferito. Ognuno di noi ha il compito di allenare la compassione e farla crescere.
La morte non appare mai tra le luci e le ombre della mostra, eppure è come se fosse la costante di sottofondo. La teme?
Accetto la mia vulnerabilità. L’arte è uno dei modi per interrogarsi sui propri confini. Ti consente di rallentare, riconsiderare, reinterpretare. Mi piacerebbe che l’esposizione a Palazzo Strozzi riuscisse a farlo. Ognuno cambia la percezione di quello che guarda, crea la propria esperienza, gioca un ruolo attivo. Ognuno sceglie il suo tempo, da solo.