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Utero in affitto: mercanti di figli

L'editoriale del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, sull'inchiesta che fa luce sul mondo delle mamme surrogate (solo per soldi)

a lettura di Panorama è molto interessante. Non intendo la copia che avete in mano: per quella il giudizio è rimesso a voi lettori. No, parlo di una copia di trent’anni fa. Dovete sapere che, da quando sono tornato a dirigere il vostro settimanale, mi piace ogni tanto portarmi a casa la raccolta delle edizioni del passato e rileggere alcuni articoli. Nei giorni scorsi, per esempio, mi è capitato tra le mani un numero del 5 novembre 1989, periodo in cui Panorama era diretto da Claudio Rinaldi e Silvio Berlusconi non era ancora diventato padrone della Mondadori. I collaboratori erano Camilla Cederna, Piero Ottone, Goffredo Fofi, Corrado Stajano, Alfredo Chiappori, Altan, Lietta Tornabuoni: in pratica il meglio degli intellettuali di sinistra dell’epoca. Tra i rubrichisti, oltre a Enzo Biagi e Giampaolo Pansa, figurava Stefano Rodotà, che non era ancora diventato Garante della privacy, ma era già un’autorità. Alle spalle aveva tre legislature come candidato indipendente nelle liste del Pci e Achille Occhetto lo aveva nominato ministro della Giustizia nel governo ombra varato quell’anno.

Ed è stato proprio un articolo di Rodotà, uomo di sinistra con in tasca anche una tessera dei Radicali, ad attirare la mia attenzione. Il titolo era composto di due sole parole: «Utero affittasi». Il professore prendeva lo spunto da un paio di fatti di cronaca: due processi celebrati in America e a Monza. Il primo doveva decidere le sorti di Baby M., una bambina commissionata da una coppia che la madre, poi, cercò di tenere per sé. Analogo procedimento era stato incardinato nella cittadina lombarda, dove la madre biologica rifiutava di rispettare il contratto e di consegnare il figlio al padre che aveva donato il seme. I due casi furono risolti con sentenze diverse. Negli Stati Uniti l’accordo fra la madre biologica e la coppia che aveva commissionato la figlia fu ritenuto nullo, ma la bambina fu affidata al padre naturale, riconoscendo alla donna che l’aveva partorita un diritto di visita. In Italia, invece, il tribunale non ebbe esitazioni e sentenziò che il bambino dovesse essere affidato alla madre biologica, lasciando al padre che aveva donato il seme solo il diritto di riconoscerlo.

Fin qui i due fatti di cronaca, ma la parte interessante è l’opinione di Rodotà, uomo di sinistra ed esperto di diritto. Per il professore, tra le due sentenze la decisione corretta fu quella del giudice italiano. In breve Rodotà smontava le tesi di chi sosteneva la necessità che venisse riconosciuto «il diritto alla procreazione, senza alcuna limitazione dei mezzi ai quali ricorrere per avere un figlio». Se un uomo può donare o vendere il proprio seme per fecondare una donna sterile, perché questo non deve essere consentito anche a una donna? Dopo essersi posto la domanda, era lo stesso Rodotà a rispondere, spiegando che se le argomentazioni dei sostenitori dell’utero in affitto erano suggestive, le cose erano un po’ più complesse da com’erano presentate, perché la donazione del seme non è paragonabile alla gravidanza. «Si può ammettere che una donna rinunci al figlio che ha generato? Si può accettare che anche questa materia sia affidata alle pure leggi del mercato, alla logica della domanda e dell’offerta?».

Per Rodotà no, non si poteva accettare. E per questo, secondo il professore, era necessaria una legge che vietasse ogni forma di commercializzazione, dunque niente compensi alla donna né intermediari, in base al principio fondamentale che il corpo non può essere trattato come una merce tra le altre. Rodotà lasciava aperto uno spiraglio a quella che chiamava la solidarietà tra donne, cioè alla possibilità di portare a compimento una gravidanza impossibile per un’altra. Ma a distanza di trent’anni da quell’articolo si può dire che lo spiraglio è diventato un portone, perché con la scusa della solidarietà, coppie senza scrupoli affittano il corpo delle donne, quasi sempre più deboli e disperate, per farsi fare un figlio su commissione, pagando centinaia di migliaia di euro. Lo dimostra l’inchiesta che Panorama pubblica questa settimana. Una nostra giornalista per mesi ha dialogato con le donne che prestano il proprio utero in cambio di soldi. Lo fanno per saldare la retta della scuola dei figli, per pagare le cure al padre, perché non sanno dove trovare il denaro per l’affitto, addirittura per dare degna sepoltura al genitore. Ecco, a trent’anni di distanza dall’articolo di Rodotà, questa è la realtà. Anche coppie italiane vanno all’estero, raccontano di aver trovato una donna generosa, che vuole aiutare chi non può avere bambini. Ma dietro l’ipocrisia dell’amore c’è la realtà dello sfruttamento.

La legge italiana vieta l’utero in affitto. Ma basta uscire dai confini nazionali, nei Paesi in cui è consentito, e si torna in Italia con un figlio nuovo di zecca, dopo aver scelto con cura la madre su un catalogo. Ci penserà poi qualche sindaco o tribunale a rendere il tutto regolare, compreso il commercio. L’articolo 604 del Codice penale, in deroga al principio generale che impone la punibilità di reati commessi nel solo territorio italiano, colpisce il turismo sessuale, perseguendo dunque i cittadini che all’estero abbiano adescato dei minori allo scopo di sfruttarli sessualmente. E allora perché non punire chi va in giro per il mondo a sfruttare il corpo delle donne, per farsi un figlio su misura? Fermare quel mercato sarebbe facilissimo: basterebbe seguire la traccia dei soldi. Così si scoprirebbe che dietro la parola amore si nascondono il denaro e anche alcune potenti organizzazioni.n

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Maurizio Belpietro