Sull'articolo 18 torna lo psicodramma Pd
ANSA/ALESSANDRO DI MEO
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Sull'articolo 18 torna lo psicodramma Pd

La direzione approva il documento finale sul Jobs Act ma senza mediazione. Renzi agita lo spauracchio del commissariamento mentre è guerra con D'Alema

130 sì, 11 astenuti e 20 voti contrari. Passa dunque il documento finale sul Jobs Act ma non ce l'ha fatta Matteo Renzi a trovare una mediazione con la minoranza interna al Partito Democratico. E intorno all'articolo 18 e alla riforma del lavoro scoppia (di nuovo) lo psicodramma PD.


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L'incontro in direzione è cominciato con toni moderati ma con le idee molto chiare. O me o la Troika (Bce, UE, Fondo monetario internazionale). Il cuore dell’intervento di Matteo Renzi sta tutto qui. Il segretario-premier non cerca di spaventare più gli oppositori agitando lo spauracchio di elezioni anticipate. Di quelle, come il capo dello Stato gli avrebbe detto in mattinata, non si parla perché Giorgio Napolitano le Camere non le scioglierà.

Renzi agita invece ora lo spauracchio del commissariamento dell’Italia. Il succo del suo messaggio è contenuto in queste poche ma dense parole finali: "O crediamo nella politica e quindi in una politica che decide, oppure ci affideremo per sempre al predominio della tecnica e della tecnocrazia, saranno altri da Bruxelles a dirci cosa fare. Altri, dagli editoriali dei giornali (chiaro riferimento al duro attacco del direttore del Corriere della sera Ferruccio de Bortoli), alle accademie, alle Università, ai club, ai salotti, saranno a spiegarci cosa fare”. L’avvertimento è forte, ma consente ugualmente a Renzi, evidentemente consigliato in tal senso da Napolitano, di fare alcune aperture alla minoranza e ai sindacati.

La possibilità di reintegro con l’articolo 18 può sopravvivere non solo nei casi di discriminazione, come aveva già annunciato, ma anche nei casi di licenziamento per motivi disciplinari. Altra apertura alla minoranza e ai sindacati: un miliardo e mezzo di ammortizzatori sociali nella legge di Stabilità per una riforma del lavoro a tutele crescenti e un nuovo welfare. Dice di essere disposto anche domattina a riaprire la sala verde a Palazzo Chigi per ricevere Cgil, Cisl, Uil ma che su proposte come quella del salario minimo garantito non ci sono coperture.

I toni appaiono meno duri e più concilianti. Ma la sostanza cambia di poco e la minoranza non ci sta. Renzi dice che non è anticostituzionale togliere l’articolo 18 ma è contro la Costituzione non avere lavoro, che la sinistra è tale solo se sa cambiare e quindi abbattere “i tabù”, “le regole vecchie di 44 anni”. E conclude con un no “ai compromessi a tutti i costi”.

La sinistra del Pd non ci sta. Lo anticipa Gianni Cuperlo: "Tu non sei la Tathcher ma non sei neanche il dominus del Pd". Ma lo scontro vero va in onda, via streaming, in modo plateale quando decide di intervenire il padre nobile di Cuperlo, il vero big dell’opposizione antirenziana: Massimo D'Alema. L’ex premier, al top del suo "dalemismo", mena, sarcastico e a tratti sprezzante, un fendente dietro l’altro. “Da Renzi oratoria non attinente alla realtà”; “Una riforma di questo tipo sul lavoro non costa un miliardo e mezzo ma dieci volte tanto, se si vuole fare con serietà”; “Ho molti dubbi su una Finanziaria fatta di molti spot, un miliardo qui, un miliardo là”; “L’articolo 18 non c’è più. Ma da due anni, diciamo...”.

È la replica all’attacco che gli aveva mosso Renzi, in risposta a un'intervista di D’Alema al Corriere della sera di domenica scorsa, quando gli ha ricordato che è stato lui e non D’Alema “a far entrare il Pd nel Pse”.

La minoranza pd ribolle, bisognerà vedere quante truppe seguiranno D’Alema, ora che Renzi ha messo nella segreteria anche un uomo un tempo ritenuto vicino al leader “Massimo”, come Enzo Amendola. La partita si sposta al Senato, fino a tarda sera erano ancora una quarantina i senatori firmatari dei 7 emendamenti contro la soppressione dell’articolo 18. E se il numero dei dissidenti non si ridurrà, il mach per Renzi sarà ad alto rischio.

Non fa ben sperare l’altro intervento durissimo fatto da Pier Luigi Bersani che ha accusato Renzi di “metodo Boffo”, rivendicando la “dignità” e il diritto di poter esprimere la propria opinione. E soprattutto non fa ben sperare l'affermazione di Stefano Fassina che a votazioni concluse annuncia mani libere in Senato: "Solo nel Pcus c'era l'unanimità".

La cosiddetta "vecchia guardia" non ci sta a far rottamare il proprio lavoro bollato da Renzi come "44 anni di vecchie regole". Chiaro il tentativo dei big di non farsi sottrarre truppe da "Matteo", soprattutto tra i giovani che già stavano mediando.

E alla fine nega al premier la mediazione con 11 astenuti e 20 voti contrari.

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Paola Sacchi

Sono giornalista politico parlamentare di Panorama. Ho lavorato fino al 2000 al quotidiano «L'Unità», con la mansione di inviato speciale di politica parlamentare. Ho intervistato per le due testate i principali leader politici del centrodestra e del centrosinistra. Sono autrice dell'unica intervista finora concessa da Silvio Berlusconi a «l'Unità» e per «Panorama» di una delle prime esclusive a Umberto Bossi dopo la malattia. Tra gli statisti esteri: interviste all'ex presidente della Repubblica del Portogallo: Mario Soares e all'afghano Hamid Karzai. Panorama.it ha pubblicato un mio lungo colloquio dal titolo «Hammamet, l'ultima intervista a Craxi», sul tema della mancata unità tra Psi e Pci.

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