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Siria 2016: le grandi incognite sulla strada della pace

Staffan de Mistura, inviato ONU, delinea un calendario che prevede nuovi incontri per l’avvio dei primi negoziati. Ma ora sono le armi a decidere

Per Lookout news

Un futuro prossimo molto fosco per la Siria. È lo stesso inviato delle Nazioni Unite per la crisi siriana, Staffan de Mistura, a dichiararlo: “Ora dobbiamo aspettarci rifiuti, boicottaggi, accelerazioni del conflitto e gravi atti di violenza, per posizionarsi prima del cessate il fuoco. Ci saranno momenti nel futuro immediato in cui tutto sembrerà di nuovo perso. Bisognerà capire che ciò non rappresenta la fine del negoziato, e mantenere la pressione per sostenerlo” ha affermato in merito il diplomatico italo-svedese.

 Il che significa almeno un altro mese di guerra intensa e nuovi giri d’incontri internazionali a Ginevra, prima di poter affermare che esiste la possibilità effettiva di una soluzione politica per mettere fine alla guerra. Nelle parole dell’ex ministro degli Esteri italiano, tuttavia, sembra di leggere anche la volontà di mettere le mani avanti rispetto al sostanziale stallo – guai a parlare di fallimento in gergo diplomatico – dei negoziati.

 E ciò non è dovuto soltanto all’inconciliabilità delle posizioni tra chi sostiene a ogni costo il presidente siriano Bashar Al Assad, come la Russia e l’Iran, e chi invece pretende la sua destituzione, come gli Stati Uniti e suoi alleati. Il punto è che la guerra sta conoscendo un’evoluzione tale da non poter consentire alle rispettive parti in causa di sigillare così come sono adesso i nuovi confini ricavati manu militari dalle fazioni in lotta.

La fotografia di oggi, infatti, mostra un paese dove i governativi di Assad non hanno il pieno controllo di Aleppo né della sua regione, ma solo di Damasco. Così come i loro alleati russi hanno il pieno controllo di Latakia ma non della regione di Idlib, minacciata dalle forze ribelli di Jabhat Al Nusra. Peggio ancora la situazione di Raqqa e Deir Ezzor, completamente in mano allo Stato Islamico. Mentre i curdi controllano parte dell’area di Al Hasakah e gli israeliani stanno meditando di mettere in sicurezza il confine naturale del Golan, e l’area di Dara e Al Quneitra, al fine di impedire milizie ostili alla frontiera.

In questo complicato mosaico, dove s’inseriscono numerose altre variabili – lo scontro tra sunniti e sciiti, quello tra Turchia e Russia, il ruolo libanese e giordano, la presenza di Hezbollah e Iran, solo per citarne alcuni – la speranza delle Nazioni Unite è allora affidata a un tavolo negoziale, da apparecchiare tra gennaio e febbraio 2016, dove rappresentanti del governo siriano e dell’opposizione possano avviare i passi iniziali per una transizione politica sotto gli auspici dell’ONU.

 L’agenda, a detta dello stesso De Mistura, è molto ambiziosa: “Governo inclusivo e non settario, tregua, costituzione, elezioni entro 18 mesi. Faremo gli inviti per vederci a Ginevra a fine gennaio. La prima prova sarà verificare quante parti verranno davvero, e parlare di cose concrete». Sorvolando sul fatto che gli inviati delle Nazioni Unite non hanno dimostrato alcun potere per così dire taumaturgico negli ultimi tempi, ciò nondimeno vale la pena fare questo tentativo, se non altro per certificare l’impossibilità di trovare un accordo.

Sulle iniziative del Palazzo di Vetro pesano ancora moltissimo il fallimento dell’inviato Bernardino Leon in Libia, dove un governo nazionale ancora non si riesce a riunire, ma anche la gestione dello stesso De Mistura nel caso indiano dell’Enrica Lexie e dei due marò. Se dovessimo scommettere in base a questi precedenti, perderemmo senz’altro. Il calendario delineato dall’ONU dimostra in ogni caso che la partita diplomatica è tutt’altro che conclusa.

Se apparentemente i nodi principali restano la guerra alla Stato Islamico e la rimozione di Bashar Al Assad, non va però dimenticato che questa non si combatte solo in Siria, ma è divampata anche in altre parti del Medio Oriente (Iraq e Yemen su tutti), così come in Africa (Libia ed Egitto, Nigeria e Somalia). Non vanno sottovalutati poi elementi come la presenza crescente della NATO nel Mediterraneo, ufficialmente per tutelare la Turchia e contenere lo scontro con la Russia; il tentativo di creare una sorta di NATO islamica promossa dall’Arabia Saudita con altre trenta nazioni; la persistente difficoltà del governo iracheno di riprendere il nord del territorio e le principali città strappate al controllo di Baghdad dal Califfato; il ruolo dei curdi siriani e iracheni che, pur diversi tra loro, mirano non solo a maggiore autonomia ma alla creazione di uno vero e proprio Stato indipendente.

 Se l’ONU è il solo e unico argine riconosciuto al grande caos mediorientale, tutto il resto ci precipita in un 2016 dove anche le nazioni più accorte come l’Italia – che a breve sarà ufficialmente presente a nord di Mosul, nel cuore delle linee difensive dello Stato Islamico – vengono trascinate una dopo l’altra in questo grande conflitto che non sembra conoscere fine.

 

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Luciano Tirinnanzi