Sì, sono un pregiudicato
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Sì, sono un pregiudicato

La Rubrica - Come Eravamo

Da Panorama del 14 agosto 2008


Dunque sono un criminale. Anzi: un pregiudicato.

Un giudice, la dottoressa Maria G. Rispoli in servizio a Milano, mi ha condannato qualche giorno fa a sei mesi di carcere. Vi posso assicurare che non ho né violentato né molestato nessuno. E neppure ho commesso un furto o uno scippo. Avessi compiuto simili reati, probabilmente mi avrebbero congedato con un buffetto o un congruo sconto di pena. Secondo la dottoressa Rispoli ho fatto ben di peggio.

Da direttore del Giornale, non ho vigilato come avrei dovuto, consentendo la pubblicazione di un articolo di Lino Jannuzzi dedicato alla procura di Palermo. Jannuzzi, che i lettori di Panorama conoscono bene, da anni conduce una personale battaglia, denunciando quelli che - a suo dire -sono i danni commessi da alcune toghe siciliane. Prima che Giulio Andreotti fosse assolto (per l'uccisione di Mino Pecorelli e per il bacio a Totò Riina, accuse manifestamente ridicole), Lino accusò i pm d'aver imbastito un processo politico. Nel corso degli anni, si è schierato a difesa di Bruno Contrada, il poliziotto condannato a dieci anni con l'accusa d'essere colluso con i mafiosi, e di altri servitori dello Stato, tra cui l'ex capo del Sisde, il generale dei carabinieri Mario Mori. Secondo Lino tutti questi processi hanno un solo filo conduttore che porta agli orientamenti del gruppo di pm che per anni ha gestito le indagini della procura palermitana.

Ma la critica a un magistrato, a cominciare da quella d'imbastire processi politici, in Italia è vietata: viene equiparata alla delegittimazione del pubblico ministero, anzi alla sua diffamazione.Non lo può fare un giornalista e non lo può fare neppure un senatore della Repubblica. Già, perché Jannuzzi all'epoca dei fatti era un parlamentare.

Teoricamente in questo Paese la Costituzione tutela la libertà di parola e pure la libertà di stampa, ma ancor di più difende il diritto di senatori e deputati di esprimere liberamente le loro opinioni. L'insindacabilità dell'azione dei rappresentanti del popolo è una prerogativa prevista dall'articolo 68 della Carta su cui si fonda lo Stato. Ma quando c'è dimezzo un giudice, la tanto celebrata Costituzione diventa carta straccia. Se a querelare è un magistrato, pur se è pendente un giudizio di legittimità costituzionale, il processo non si ferma. Se è un giudice a dirsi vittima per un articolo di un parlamentare, che il Parlamento ritiene che non possa essere perseguito, si persegue il direttore che ha consentito la pubblicazione dell'articolo. Così, con un metodo obliquo, si colpisce comunque il diritto di parola di un senatore. Così l'insindacabilità dell'opinione di un rappresentante del popolo diventa sindacabile, anche se per interposta persona. Insomma, si condanna il direttore per condannare Jannuzzi.

Chissà se questo metodo obliquo, che viola le prerogative di un membro del Parlamento, sarà oggetto di valutazione da parte di Gianfranco Fini e Renato Schifani, che del Parlamento sono i garanti massimi. Io credo che li riguardi da vicino, in quanto è loro preciso compito difendere le prerogative costituzionali di senatori e deputati, però, francamente, mi riesce difficile immaginare che abbiano la forza di censurarlo.

Per quel che mi riguarda, sono a un bivio. Posso decidere di rinunciare a Lino Jannuzzi e alla sua rubrica, spesso oggetto di attacchi giudiziari delle toghe, così come a quella di Paolo Guzzanti, altro senatore della Repubblica. Posso insomma decidere di mettere il bavaglio a loro e anche a Panorama. Oppure di rischiare altre condanne oblique e quindi anche il carcere. Dal mio punto di vista, non ho dubbi. Continuerò a pubblicare Jannuzzi (che peraltro ora rischia quanto me, perché non è più parlamentare, ma almeno è protetto dallo scudo dell'età che gli evita il carcere) e anche Guzzanti. Mi mettano pure in galera. Continuino a condannarmi e ad arricchirsi con sentenze di autotutela (negli anni alcuni magistrati hanno accumulato milioni esentasse dicendosi vittime). Se devo finire dietro le sbarre pur di essere libero d'affermare che i giudici sono una casta che un giornalista non può criticare, nemmeno quando sbagliano, bene: sono pronto. Così mi riposo.

P.S. Non vorrei sembrarvi incosciente. Conosco il carcere per essere stato costretto a lavorarci per quasi un anno quand'ero militare. So del dolore causato dalla lontananza forzata dalle persone amiche e dalla propria casa. Non ignoro il disagio dovuto a una convivenza obbligata, che impedisce di godere di un po' di solitudine. Ho cognizione del fastidio di stare in una cella in cui l'odore degli avanzi di cibo si mischia a quello di chi vi abita fino a incollarsi sulla pelle. Conosco insomma cosa prova un detenuto. Soprattutto se innocente.

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Maurizio Belpietro