Volpi: «La politica stia lontana dall'idrossiclorochina, se ne occupi la medicina»
Nel riquadro, la deputata pentastellata Leda Volpi, neurologa (IStock)
Salute

Volpi: «La politica stia lontana dall'idrossiclorochina, se ne occupi la medicina»

Firma la petizione su Change.org: https://www.change.org/PanoramaClorochinaCovid19

La dottoressa Leda Volpi, deputata Cinque Stelle, spiega perché chiede un protocollo per le cure domiciliari. E lancia un appello: «Diamo una possibilità al farmaco antimalarico, riportando il dibattito sugli studi scientifici e sulle casistiche, senza pregiudizi né strumentalizzazioni».

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«L'idrossiclorochina non deve avere colore politico: verifichiamo le sue potenzialità agendo con onestà intellettuale per il bene della popolazione». È un atto di coraggio quello di Leda Volpi, deputata del Movimento Cinque Stelle dal 2018. Neurologa, 41 anni, si è formata all'università di Pisa, dove dopo la laurea in Medicina ha fatto la specializzazione e il dottorato di ricerca. Ora è medico dell'ospedale di Sanremo. E in virtù delle sue conoscenze scientifiche è in grado di andare controcorrente, schierandosi sul tema più controverso del momento. «Diamo una possibilità all'idrossiclorochina» chiede, «disegnando studi in fase domiciliare per dimostrare se veramente può essere d'aiuto». Panorama la intervista il giorno in cui esce la notizia che la Regione Marche ha aperto all'utilizzo di idrossiclorochina contro il Covid-19, da utilizzare nei trial clinici, in ospedale e anche nelle cure domiciliari.

Onorevole, cosa pensa di quello che stanno facendo le Marche?

«È una vicenda molto interessante. Bisognerebbe capire come hanno ottenuto l'autorizzazione, cioè il tipo di protocollo. Sicuramente far sì che i vari centri ospedalieri e universitari facciano rete è altamente positivo».

Qual è la sua posizione sulle cure domiciliari del Covid?

«È un tema importantissimo. Già da primavera, assieme ad altri colleghi che si occupano di sanità in Parlamento, abbiamo fortemente voluto spronare il Governo sia per implementare la sanità del territorio sia per avere linee guida terapeutiche e di presa in carico dei pazienti».

Linee guida per i medici di base?

«Per i medici di base e per i medici delle Usca, le Unità speciali di continuità assistenziale, che svolgono attività domiciliari per i pazienti Covid».

Lei sa bene che le Usca sono pochissime...

«Secondo uno studio della Cattolica, al posto delle 1.200 circa stimate dal Governo ne sono state attivate la metà. Oggi è evidente che molte regioni hanno lasciato indietro l'aspetto territoriale, quindi già si partiva da una situazione difficile. Ma per fronteggiare il Covid (e non solo) è fondamentale la sanità del territorio. Il paziente deve andare in ospedale solo quando c'è un evento acuto che richiede prestazioni ad alta intensità. Per tutto il resto i pazienti dovrebbe essere trattati sul territorio».

Ma lei sa che a livello nazionale non ci sono linee guida precise su cosa devono fare i medici sul territorio. L'Aifa dice: «Nella fase domiciliare, la cosa migliore da fare è la vigile attesa: non assumere farmaci». Siamo tornati agli inizi di marzo...

«In effetti non sono mai state ufficializzate linee guida ministeriali. Questo è un punto che abbiamo chiesto con forza come parlamentari. E che chiediamo tuttora. Perché è necessario specificare i protocolli terapeutici ma anche i protocolli della presa in carico. Per esempio ora i medici di famiglia dovranno effettuare i tamponi. Molti sono spaventati dal fatto di avere l'ambulatorio in un condominio. Ci sono delle realtà che invece si sono organizzate bene. Per esempio la Asl di Reggio Emilia e altre nei dintorni hanno realizzato un'ottima integrazione fra i medici delle Usca, quelli di famiglia e quelli di continuità assistenziale. E hanno suddiviso gli ambulatori fra quelli Covid e quelli non Covid, in modo da mantenere anche sul territorio percorsi sporchi e puliti».

Queste sono isole felici. La realtà è che in tutto il resto del territorio nazionale, i medici di famiglia dicono di essere allo sbando. Si parla tanto di cure domiciliari, ma se non si dice ai medici che terapie dare come si può sconfiggere la pandemia?

«Armi sul territorio praticamente non ce ne sono».

Però questo è gravissimo. Gravissimo che succeda alla seconda ondata. Paradossalmente a marzo con l'idrossiclorochina, prima non autorizzata poi autorizzata, i medici potevano prescrivere una terapia. Adesso non hanno nulla. Io lo trovo surreale. E lei?

«Sì, sì, appunto. Come le dicevo, noi come parlamentari stiamo chiedendo in tutti i momenti che abbiamo di confronto con il governo proprio di spingere per dare delle linee guida e dei protocolli chiari e omogenei su tutto il territorio nazionale».

Ma non dev'essere l'Aifa a dare le linee guida?

«L'Aifa, ma in collaborazione anche con il ministero della Salute».

La Regione Campania per esempio ha presentato le linee guida per la «gestione del paziente Covid 19 a domicilio». Altre regioni, fra cui la Lombardia, zero.

«Come sempre, ci sono 20 sistemi sanitari a velocità diverse, che vanno in direzioni diverse. È un problema che stiamo riscontrando sempre, praticamente».

Però almeno a livello nazionale è necessario che qualcuno dica ai medici di famiglia che cosa fare. È talmente ovvio...

«Io credo che la soluzione migliore sarebbe istituire velocemente un tavolo proprio per elaborare queste linee guida».

E sull'idrossiclorochina?

«Bisogna rivedere la letteratura scientifica prodotta finora, con le casistiche dei nostri territori, rivalutando tutta la posizione. Purtroppo è un dibattito che sta deviando da un lato verso politicizzazioni, dall'altro verso pregiudizi. È una cosa molto scorretta, secondo me, perché un tema sanitario deve rimanere solo nell'ambito scientifico».

Esatto.

«Non deve avere alcun colore politico, anche perché le strumentalizzazioni politiche non fanno che peggiorare la possibilità di fare un dibattito sereno basato sulle evidenze. È uscita l'anteprima di una metanalisi grossa, ancora in pre-print, che ha riguardato in totale 44.521 pazienti».

È quella firmata da Antonio Cassone, ex direttore di Malattie infettive all'Istituto Superiore di Sanità, e Roberto Cauda, direttore di Malattie infettive al Gemelli di Roma?

«Sì. Sono stati rivisti 26 studi ed è risultato che, quando si somministrano dosi basse di idrossiclorochina, che poi sono quelle che diamo nella pratica clinica per malattie reumatologiche, non ci sono effetti avversi ma ci sono effetti positivi in termini di riduzione della mortalità. Gli effetti negativi risultano più che altro negli studi in cui si danno dosi elevate. Peraltro tali studi sono effettuati su pazienti ospedalizzati, mentre le casistiche e ormai anche alcune evidenze scientifiche suggeriscono che la fase ideale sia quella precoce o domiciliare».

Torniamo alle cure domiciliari...

«Per questi motivi sarebbe opportuno finanziare e promuovere studi in fase domiciliare, partendo dalle casistiche che abbiamo in alcune realtà nel Nord Italia».

Lei ha detto che occorre aprire un tavolo: ma chi dovrebbe aprirlo?

«Il Ministero della Salute con l'Istituto superiore di sanità».

Tavolo sulle cure domiciliari Covid?

«Io l'avevo già chiesto in primavera, proponendolo anche come emendamento al Cura Italia e poi anche al Rilancio. E continuo a chiederlo, nell'ottica di integrarlo con la fornitura dell'attrezzatura del medico di baseda utilizzare anche per la telemedicina: dai banali saturimetri agli eletttrocardiografi per vedere se ci sono controindicazioni cardiologiche. Ma anche l'ecografo polmonare, che dà dati che possono essere utili al medico per decidere che cosa fare. Perché ovviamente non si può fare la Tac polmonare a casa né a tutti i pazienti. Tutte queste cose potrebbero essere delineate meglio in un protocollo».

Quindi lei vuole promuovere un protocollo?

« Sì, bisognerebbe definire un protocollo terapeutico per le cure Covid domiciliari, sentite ovviamente le società scientifiche, e coinvolgendo tutte le specialità e i medici che hanno a che fare con il Covid. Quindi anche la medicina del territorio e i medici di famiglia».

Lei che idea si è fatta dell'idrossiclorochina? Serve, non serve o fa danni?

«Intanto diciamo che come medici dobbiamo basarci sulle evidenze scientifiche però è anche vero che non si deve essere rigidi e con il paraocchi. Nel senso che questa malattia è nuova: nessuno la conosceva prima dello scorso febbraio. Quindi la possibilità di fare studi approfonditi, randomizzati e controllati è limitata in un momento di pandemia ed emergenza sanitaria. Ricordiamo poi che parliamo di un farmaco che non ha una casa farmaceutica alle spalle che lo sostenga».

Nessuno lo sponsorizza perché costa troppo poco. Non a caso il produttore dell'originale, Sanofi, sta pensando al vaccino...

«Ovviamente quando si deve avviare uno studio per un farmaco sponsorizzato da una casa farmaceutica si hanno strumenti in più: si può ad esempio pagare il personale per ricoprire gli incarichi e fare la sperimentazione».

Ma ormai la ricerca la pagano solo le case farmaceutiche. E questo è un problema. Come risultato, l'idrossiclorochina (costo 5,12 euro) è svantaggiata perché nessuno ne sponsorizza studi randomizzati. Mentre il Remdesivir (costo 2100 euro) è avvantaggiato perché ha dietro di sé studi fatti comme il faut dalla casa farmaceutica Gilead.

«Sì, certo in questo caso bisognerebbe affidarsi alla ricerca indipendente: università motivate a fare determinate a fare determinati studi».

Ma ci sono università disposte a finanziare studi sull'idrossiclorochina? Non credo...

«Sul sito dell'Aifa ho visto che c'è una ricerca dello Spallanzani, ma non so se è attualmente in corso. Non ho informazioni aggiornate».

Ma non pensa che dovrebbe essere l'Aifa a fare uno studio? Ma fatto con le dosi usate in Italia, non con le dosi da cavallo usate per esempio dallo studio Solidarity dell'Oms: 2400 mg il primo giorno contro i nostri 800. È ovvio che poi ci sono effetti collaterali...

«Sì, certo. È un protocollo completamente diverso da quello che suggeriscono i nostri medici sul territorio e le loro casistiche. Secondo me sarebbe proprio auspicabile uno studio disegnato sull'esperienza italiana».

Però l'unico ente che può farlo è l'Aifa. O sbaglio?

«Sì, potrebbe promuovere studi di questo tipo. Un'altra cosa che sarebbe auspicabile, visto che ci sono centri italiani che hanno già fatto una sperimentazione ospedaliera, magari gli stessi che vogliono aderire potrebbero stipulare convenzioni tramite l'Asl con i medici di medicina generale e fare una sperimentazione in fase precoce. Potrebbe essere una soluzione».

Quindi lei propone di fare una sperimentazione indipendente dell'idrossiclorochina?

«Io penso che bisogna sempre partire dal metodo scientifico, che parte dall'osservazione. Dall'osservazione si trae un'ipotesi, che viene testata con una sperimentazione. Però è importante nella sperimentazione inserire alcune variabili. Ovviamente se si modificano alcune variabili poi cambia l'esito della sperimentazione. Quindi è sempre bene leggere attentamente gli studi. Secondo me è assolutamente una questione meritevole di essere studiata in fase domiciliare».

Però il dottor Luigi Cavanna dice che se aspettiamo che vengano fatti gli studi, rischiamo di avere i risultati quando ormai ci sono state decine di migliaia di morti. In un'emergenza come questa non si potrebbe aprire all'uso compassionevole o in via sperimentale?

«Le due cose possono andare di pari passo: da un lato la sperimentazione che è sempre necessaria».

Sacrosanta, per carità...

«Necessaria per dare delle risposte quando c'è un dubbio, una diatriba scientifica. Dall'altro lato si potrebbero fare protocolli d'intesa per la somministrazione locale. Certo, in Paesi come gli Stati Uniti che non hanno la sanità territoriale come la intendiamo noi, è chiaro che somministrare farmaci a domicilio ha un altro significato. In Italia, invece, dove l'idrossiclorochina è conosciuta bene, i medici di famiglia conoscono i loro pazienti (sanno ad esempio chi ha un rischio aritmico) e hanno tutti gli strumenti per decidere a chi somministrarla e a chi no».

Quindi lei spinge a favore di una revisione dell'approccio dell'Aifa?

«Sì. Io credo che il dossier andrebbe proprio rivisto alla luce anche degli ultimi studi e delle casistiche disponibili».

Anche alla luce della real world evidence, insomma?

«Sì. Esatto. Poi bisognerebbe distinguere il punto della tossicità cardiaca rispetto a quello dell'efficacia. Sono due valutazioni diverse da fare, sulla base di quanto pubblicato e sull'esperienza di tutti i nostri medici nella pratica clinica».

Ma lei da medico come spiega tanto ostracismo verso l'idrossiclorochina che, se data in modo avveduto, non ammazza nessuno?

«Stupisce anche me. Infatti il mio appello è contro i pregiudizi, oltre che contro le strumentalizzazioni. Alla fine è un farmaco che conosciamo. Non capisco perché ci sia tutto questo clima da tifoserie di calcio, che non si addice proprio a questo tipo di discussione. La scienza non è un dogma».

Come giudica la nomina a coordinatore del gruppo di lavoro per la gestione del paziente Covid-19 per il Ministero della Salute del dottor Matteo Bassetti, grande sostenitore delle cure ospedaliere con il Remdesivir e grande oppositore dell'idrossiclorochina?

«È una nomina fatta da Agenas, l'Agenzia per i servizi sanitari regionali. Mi trova in disaccordo perché abbiamo letto e sentito in questi mesi tante sue dichiarazioni, spesso in contraddizione fra loro e a volte che strizzavano l'occhio a un atteggiamento di minimizzazione dei rischi della pandemia e dei comportamenti da adottare, che la realtà dei fatti ha sconfessato. Sinceramente avrei preferito professionisti più equilibrati e soprattutto avrei privilegiato chi ha suggerito strategie costruttive nella pratica clinica e sul territorio».

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Elisabetta Burba