Garavelli: «Il Covid infuria e va fermato sul territorio. Con l'idrossiclorochina»
Tamponi a Napoli nelle tende dell'esercito il 4 novembre (Ansa).
Salute

Garavelli: «Il Covid infuria e va fermato sul territorio. Con l'idrossiclorochina»

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Il professor Pietro Luigi Garavelli spiega perché la seconda ondata della pandemia è più aggressiva della prima. E lancia un appello: «Auspico che presto l'idrossiclorochina ritorni nella piena fruibilità dei medici».

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«La situazione è peggiore che a marzo». È sconsolato, il professor Pietro Luigi Garavelli, 59 anni, primario da oltre 20 anni della Divisione di Malattie infettive dell'Ospedale maggiore della Carità di Novara. Alessandrino di Valmadonna, ha la erre di Gianni Rivera. Pioniere delle cure domiciliari del Covid con idrossiclorochina, l'infettivologo oggi è abbattuto come il campione di calcio suo conterraneo quando perse la finale dei Mondiali del Messico. Mentre la raccolta firma per l'Aifa ha toccato quota 14.500, Panorama lo ha intervistato per capire come sta evolvendo la pandemia.

Il virus non solo non è scomparso, ma è più aggressivo che mai...

«Durante la stagione estiva il virus non è scomparso, ma per le condizioni climatiche ad esso sfavorevoli la sua trasmissione è stata meno efficace. Ecco perché d'estate ci sono stati assolutamente pochi contagi e pochi pazienti ospedalizzati. Ma dato che non è scomparso, non appena le condizioni climatiche si sono rivelate favorevoli, tenendo conto che comunque c'era un'ampia base di pazienti contagiati asintomatici, la trasmissione è ripresa in modo più violento».

Dunque si sapeva che in autunno sarebbe tornato, come dicevano tutti gli esperti seri?

«Si sapeva a priori. Basta osservare che questo coronavirus è diverso dagli altri, ai quali una temperatura superiore ai 26 gradi avrebbe ostacolato se non impedito la trasmissione. Bastava osservare che la stessa era altrettanto efficace nelle aree calde degli Stati Uniti d'America, che sono alla nostra latitudine, per comprendere che questo virus non sarebbe assolutamente scomparso durante la stagione estiva. Era evidente che avremmo avuto una ripresa in autunno».

Quindi l'assunto di Alberto Zangrillo sul virus «clinicamente morto» era infondato?

«A giugno si aveva l'impressione, favorevole il clima e i pochissimi ricoverati, che qualcosa fosse cambiato. Io stesso avevo adombrato l'ipotesi che il virus avesse attenuato la sua virulenza. Ci si sbaglia, bisogna avere l'onestà di dirlo, soprattutto in una malattia poco nota e in continua evoluzione».

Tutti possono sbagliare, insomma, ma dovrebbero avere l'onestà intellettuale di ammetterlo?

«Io mi occupo di malattie infettive da una vita. E lavoro sul campo. Capisce la mia risposta diplomatica? Non sono un tuttologo».

Adesso la situazione è preoccupante?

«È preoccupante in virtù di una caratteristica tipica di Covid. È un virus simile ad altri che causa patologie respiratorie, con 80% di asintomatici, 20% di malati, 10% che necessita di ricoveri e 1% di morti. Quello che preoccupa di Covid non sono i dati intrinsechi alla patologia, ma la grande contagiosità».

Ossia?

«Se lei applicasse queste percentuali a un'influenza stagionale che per ipotesi colpisse 4 milioni di italiani, avrebbe necessità di ricovero per 400.000 malati e avrebbe 40.000 morti. Ma se lei applica questi numeri a una patologia che in teoria può infettare 40 milioni di italiani, lei può capire che l'impatto è dieci volte superiore e quindi più preoccupante in termini assoluti».

Quindi il Covid è molto più infettivo dell'influenza normale?

«Sicuramente ha valori di infettività (l'indice Rt) superiori in generale alle influenze stagionali. Per due motivi: perché nelle influenze stagionali una parte della popolazione è protetta per tempo dal vaccino e poi perché le stesse sono causate da virus che periodicamente si ripresentano e quindi la popolazione è già parzialmente immune. Il Covid-19, invece, è causato da un nuovo virus, per cui non c'è vaccinazione. Ecco perché l'impatto è numericamente molto più rilevante».

Ma oggi la situazione è peggiore che a marzo?

«Eh sì, è peggiore. Non fosse altro perché in autunno ci sono condizioni climatiche molto più favorevoli alla trasmissione del virus che in primavera».

Condizioni climatiche che non cambieranno per altri cinque mesi...

«Certo. A meno che, nel frattempo, visto l'attuale rapida diffusione del virus, non si stabilisca una sorta di immunità. Contagiando tanta popolazione così rapidamente, il Covid-19 potrebbe ridurre la sua corsa non avendo più nulla da infettare. Non deve essere coperta per forza tutta la popolazione, ma una quota parte sufficiente affinché la trasmissione della patologia infettiva si interrompa».

Ma è questa l'«immunità di gregge»?

«Immunità di gregge è un termine assolutamente scorretto. Perché probabilmente quella che protegge nei confronti di Covid è un'immunità naturale aspecifica a carico delle alte vie respiratorie».

Può fare una stima di quando potremmo arrivare a questa immunità?

«Non lo so, ma il virus procede con una tale velocità di diffusione, che se va avanti così in qualche mese potrebbe fare il giro del mondo, dell'Europa e dell'Italia».

E quindi potrebbe risolversi?

«Il problema di Covid è che non è detto che si risolva, perché è un virus dove sono già state dimostrate delle reinfezioni. Personalmente io ho osservato soggetti infettati nell'ondata primaverile, che si sono reinfettati. È un virus che scopriamo di giorno in giorno. Quindi anche quando la partita potrebbe essere chiusa, per ragioni naturali, magari poi ricompare. Come il mostro di Lockness, ritira fuori la testa dal lago».

Ma a che prezzo si arriverebbe all'immunità?

«Il rischio è che questo virus, correndo nella popolazione, trascini con sé una scia di malati e morti. Sostanzialmente, per raggiungere una sorta di protezione immunitaria si finirebbe per pagare un dazio pesante, a meno che non si trovino misure adeguate per proteggere la popolazione».

Dazio che corrisponderebbe a quanti morti?

«Più o meno all'1% dei contagiati».

E a quanti contagi può arrivare il Covid-19 in Italia?

«Non lo sappiamo, ma se il virus viene lasciato libero di correre potrebbe colpire milioni e milioni di italiani. L'ipotesi più pessimistica stima 40 milioni di persone».

Facendo quindi più o meno 400.000 morti?

«Per ipotesi sì. È per questo che sono importanti le cure domiciliari. Come ha scritto oggi France Soir, è appena uscita una metanalisi, cioè una raccolta di più pubblicazioni, che ha riguardato in totale 44.521 pazienti. Secondo questo studio italiano, l'utilizzo di idrossiclorochina ridurrebbe la mortalità fino al 35%».

Però c'è il vaccino...

«Riguardo al vaccino anti Covid, pongo sul tavolo tre problemi. Primo: quanto questo vaccino sarà tollerato, perché bisognerà probabilmente combinarlo con degli adiuvanti per rendere la risposta immunitaria più efficace. Secondo: quanta parte della popolazione immunizzerà, visto che per esempio il vaccino anti-influenzale secondo recenti studi non immunizza più del 29% dei pazienti a cui viene somministrato. Terzo: quanto a lungo durerà l'immunità vaccinale. Già si parla di richiami periodici ogni qualche mese...»

Lei sta dicendo che non possiamo sperare di risolvere tutto con il vaccino?

«Sì».

Ricapitolando: il virus è immutato, le condizioni climatiche non si sono dimostrate risolutive e il vaccino pone tanti dubbi.

«Torniamo al ragionamento. Quand'è che un lockdown funziona? Funziona nel momento in cui io preservo una quota parte della popolazione, mentre invece fuori infuria la trasmissione della patologia. Poi però questa popolazione la devo riesporre. Ma la riespongo quando ci sono quattro condizioni che mi determinano la riesposizione in sicurezza».

Quali sono queste condizioni?

«Prima: modificazione del virus o scomparsa dello stesso. Seconda: condizioni climatiche favorevoli. Terzo: vaccino. Quarta: cura».

Per ora nessuna di tali condizioni sussiste.

«Nel momento in cui io non c'è nessuna di queste quattro condizioni, tutte le volte che si riesporrà la popolazione al virus, entro qualche settimana si avrà di nuovo la ripresa dell'ondata epidemica. Quindi dal punto di vista clinico il lockdown non funziona».

Allora perché lo facciamo?

«Perché potenzialmente la grande massa di malati con necessità di cure ospedaliere travolgerebbe gli ospedali. Occorre ridurre i ricoveri, perché il sistema sanitario non è in grado di reggere questa massa d'urto. Il lockdown la diluisce, ma non è risolutivo. Perché invece di avere una grande ondata epidemica si rischiano tante piccole ondate che, sommate, equivalgono a una grande. Con pesanti conseguenze psichiche, economiche e sociali».

E dunque?

«Arriviamo al quarto punto: fondamentale è la cura. Poiché si va in battaglia con quello che si ha, ciò che ora abbiamo sono tre farmaci antivirali aspecifici, cioè non disegnati sul Covid. Ossia l'idrossiclorochina, l'azitromicina e il remdesivir. Tutti e tre possono trovare il loro impiego ospedaliero, ma solo due, visto che sono compresse, possono essere usate anche sul territorio: l'idrossiclorochina e l'azitromicina. Il remdesivir no, perché è solo a uso ospedaliero. L'idrossiclorochina risulta più efficace dell'azitromicina e se associata alla seconda è ancor meglio».

Poi ci sono i farmaci sintomatici.

«Sì, sono quelli che curano non il virus ma le manifestazioni indotte dal virus. E sono l'enoxaparina, cioè l'eparina, e il desametasone, cioè il cortisone. Entrambi possono essere usati sia a livello territoriale sia a livello ospedaliero».

E il desametasone?

«Chiariamo: non è un antivirale, cioè non interviene direttamente sul virus. È solo, come l'eparina, un ulteriore supporto al paziente, che aumenta le percentuali di guarigione».

Appurato quali sono i farmaci a disposizione, resta il problema di quando somministrarli.

«Tutti coloro che praticano malattie infettive sanno benissimo che tanto più precocemente una terapia viene applicata, tanto più si ha speranza che sia efficace. Quindi tutti e tre i farmaci antivirali vanno utilizzati quando compaiono i primi sintomi. Intercettando non i pazienti ricoverati in ospedale, ma quelli con sintomatologia lieve e moderata sul territorio».

Sul territorio il remdesivir non si può dare.

«Perchè l'attuale formulazione è solo in fiale, a uso ospedaliero. Ma restano gli altri due farmaci. Comunque la battaglia contro il virus viene vinta o persa non negli ospedali, dove i pazienti arrivano talvolta in condizioni avanzate, che rendono questi farmaci sono meno efficaci. Viene vinta o persa sul territorio, dove le terapie disponibili esplicano la maggiore potenza».

Ma questa cosa la ripetiamo da marzo...

«Anch'io la ripeto da marzo. Questa battaglia è stata condotta fin da marzo in un ideale quadrilatero: Milano dottor Andrea Mangiagalli, Novara dottor Garavelli, Alessandria dottoressa Paola Varese e dottor Guido Chichino, Piacenza dottor Luigi Cavanna».

Ora però l'idrossiclorochina non si può prescrivere. La battaglia è quindi persa?

«No. Non è persa perché auspico che presto l'idrossiclorochina ritorni nella piena fruibilità dei medici. Se biob avverrà, si perderà un presidio fondamentale delle cure domiciliari».

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Elisabetta Burba