Saltano le regole sul ring di Hempstead tra Obama e Romney
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Saltano le regole sul ring di Hempstead tra Obama e Romney

Scintille nel secondo round per la Casa Bianca tra gaffe, accuse e colpi sotto la cintura - Il Presidente vince ai punti - Lo speciale Elezioni Usa

Barack Obama si prende la rivincita a Hempstead, a 40 chilometri da New York, nel secondo dei tre confronti con Mitt Romney prima del voto del 6 novembre per la presidenza degli Stati Uniti. Stavolta non è l’Obama un po’ suonato di Denver, umiliato dai “diretti” messi a segno dallo sfidante.

Stavolta è un corpo a corpo che va in scena in un ring, la piccola arena circolare della Hofsfra University, sotto la luce teatrale di riflettori che la inondano, attorno ai boxeur spicchi di platee a scalare con elettori indecisi che rivolgono direttamente le domande ai candidati. Un arbitro interroga e modera, la giornalista della Cnn Candy Crowley, donna di polso che non esiterà a intervenire con quel rispetto dei fatti in cui i giornalisti americani sono maestri.

Succede nel momento cruciale in cui Romney accusa Obama di aver tardato due settimane a riconoscere che l’ambasciatore statunitense in Libia è stato ucciso non in una improvvisata manifestazione di piazza a Bengasi, ma in un deliberato attacco terroristico al consolato americano, e per di più di essere andato il giorno dopo a un incontro di fund raising per la sua campagna. È l’errore, la gaffe.

Obama lo sbugiarda: “Il giorno dopo ho parlato di ‘atto di terrore’ nel giardino delle rose alla Casa Bianca”. La Crowley conferma: “L’ha detto”. E il presidente: “Puoi dirlo più forte”. È lo snodo della serata. E, forse, dell’intera battaglia presidenziale 2012.

Sì, il presidente ha ritrovato la grinta del candidato che era nel 2008. È concentrato, risoluto, preciso. La mano affetta l’aria e scandisce le frasi, ripetute davanti allo staff tante di quelle volte che non può sbagliare, non più, oggi. Completo scuro e cravatta bordeaux non sgargiante, accetta lo scontro ravvicinato. Anzi, è il primo a pungere: “Il piano in 5 punti di Romney in realtà è un piano con un punto solo: far sì che chi sta meglio giochi con regole diverse da quelle che valgono per tutti gli altri”.

Mitt però non delude. Completo scuro anche per lui ma cravatta a strisce bianche e blu. Oratoria fluida, sapiente scelta dei tempi, controllo dello spazio. Snocciola i dati della crisi, dei quattro anni di impoverimento della classe media “schiacciata” dalle promesse (mancate) di Obama, con un deficit “che invece di dimezzarsi è raddoppiato, 23 milioni di americani senza lavoro, e tasse più alte”.

Le parole-chiave che lo sfidante sparge tra una frase e l’altra sono “classe media” e “America”. È efficace. Romney si conferma all’altezza della Casa Bianca. Solo che oggi non basta.

Obama ribatte punto per punto, lo incalza, dosa bene il guardar dritto negli occhi il rivale e snobbarlo voltandogli la schiena per riprendere il filo del dialogo che lo interessa di più, quello con gli americani. A tratti saltano le regole, quando invece di alternarsi sul ring, microfono in mano, Romney e Obama s’incrociano al centro dell’arena, si scansano, s’inseguono, si danno sulla voce. Dosano aggressività e pazienza, compensano la prima con un’altra dote necessari in un leader: la capacità di ascolto.

Pronti a parare i colpi. O a sferrare l’attacco.

Sull’economia Romney è più convincente. Anche perché Obama ha alle spalle quattro anni deludenti, magari non per colpa sua ma deludenti. Ma a differenza che a Denver, il presidente “si abbassa” a pizzicare Romney sulle sue contraddizioni di contribuente privilegiato, di uomo d’affari che ha eluso le tasse pagando aliquote più basse del cittadino comune, e su quella che è la sua gaffe più clamorosa, il fuori onda in cui ha liquidato il 47 per cento di americani come parassiti. Qui Obama ha gioco facile anche perché colpisce Romney sotto la cintura, citando scientemente l’infortunio del rivale nei due minuti di appello conclusivo, senza possibilità di replica per Mitt che assiste gelido, all’angolo.

“Lo avranno riempito di Red Bull e caffè”, commenterà il governatore repubblicano della Louisiana, Bobby Jindal, riferendosi a Obama. Ma Barack non è sopra le righe, piuttosto è duro e autorevole, soprattutto quando risponde alla domanda per lui più delicata. Quella sui fatti di Bengasi.

Romney prova ad attaccarlo sulla politica estera ricordando il tour “di scuse” nel mondo arabo all’esordio come presidente. Ma sbaglia, perché Obama può replicare da statista, e dopo che il segretario di Stato Hillary Clinton si è assunta per lui ogni responsabilità nell’uccisione dei quattro americani a Bengasi, il presidente a sorpresa (e a effetto) assume su di sé quel dubbio primato: “Il segretario di Stato ha fatto bene ma lei lavora per me, il responsabile sono io”. E rivendica così la sua leadership, nel bene come nel male, rimproverando piuttosto a Romney di non essersi comportato da “comandante in capo” nel momento in cui si è lasciato andare a commenti politici “con i morti ancora in terra”.

Spiazzato dal contrattacco su un tema che doveva per lui essere vincente, Romney vistosamente annaspa alla ricerca delle parole (e soprattutto delle idee), brancolando nella memoria consapevole di aver detto troppo. E decide di insistere, accusa erroneamente Obama di non aver ammesso tempestivamente la vera natura dell’attacco all’America.

La sconfessione della Crowley gli infligge il colpo di grazia.

Tutti i sondaggi danno Obama vincente, anche se ai punti, certo non nella misura con cui Romney si è aggiudicato il primo round. Ma non sappiamo, né lo sapremo fino al 6 novembre, quanto peseranno sulla “pancia” della gente le parole di Romney (oggi per la verità apparse un po’ ripetitive) sulla sofferenza della classe media tartassata da Obama. Al termine, l’abbraccio di Barack a Michelle più intenso, nella regia, delle fredde presentazioni alla platea di Anne al braccio di Mitt.

E torna il sorriso nel campo del presidente.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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