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Riina: il boss che ha spaccato in due lo Stato

La Cassazione invita il tribunale di sorveglianza a riconsiderare i domiciliari: polemiche e rabbia tra le vittime della mafia e i servitori dello Stato

La “belva” ha spaccato in due lo Stato. La prima sezione penale Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della difesa di Totò Riina che aveva chiesto il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare. La richiesta della difesa era stata respinta nel 2016 dal tribunale di sorveglianza di Bologna.

La decisione della Cassazione ha sollevato critiche e perplessità.

Da una parte i servitori dello Stato e i familiari delle vittime delle mafie che assieme alla maggior parte dei cittadini italiani che credono e difendono le Istituzioni “gridano” alla vergogna; dall’altra una parte di uno Stato che sembra aver smarrito “in nome di una dignità nel morire” il senso più profondo, il rispetto nei confronti di quella Istituzione verso la quale hanno giurato fedeltà.

Agli uomini e alla donne detenute nelle carceri italiane, lo Stato italiano non ha mai negato nessuna forma di prevenzione, accertamenti e cure. E questo neppure al boss dei boss che ha avuto modo di monitorare le sue patologie e quando è stato necessario, di essere ricoverato all’ospedale di Parma.

Nei suoi confronti, come dichiarano i figli e i parenti delle persone che lui ha brutalmente ucciso, non si può non parlare di rispetto. Anzi. Lui ne ha avuto e continua ad averne anche nell’ambito della detenzione secondo il 41 bis.


"Penso che mio padre una morte dignitosa non l'ha avuta, l'hanno ammazzato lasciando lui, la moglie e Domenico Russo in macchina senza neanche un lenzuolo per coprirli. Quindi di dignitoso, purtroppo, nella morte di mio padre non c'è stato niente", commenta così Rita Dalla Chiesa.

La decisione della Cassazione

La richiesta del legale di Riina degli arresti domiciliari per gravi motivi di salute, si legge nella sentenza 27.766, relativa all'udienza del 22 marzo scorso, era stata respinta lo scorso anno dal tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso "di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico".

Infatti secondo la Cassazione il giudice deve verificare e motivare "se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità" da andare oltre la "legittima esecuzione di una pena".

La Cassazione, infatti, ritiene che non emerga dalla decisione del giudice bolognese in che modo si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena "il mantenimento in carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa", che non riesce a stare seduto ed è esposto "in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili".

La Cassazione ritiene di dover dissentire con l'ordinanza del tribunale di Bologna: "dovendosi al contrario affermare l'esistenza di un diritto di morire dignitosamente" che deve essere assicurato al detenuto.

Inoltre, punti fermi restano "l'altissima pericolosità" e l'indiscusso spessore criminale". Su questi aspetti, la Cassazione sostiene che il tribunale non ha chiarito: "come tale pericolosità" possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico".

Il "no" del Tribunale di Bologna

Ma perché il Tribunale di Bologna aveva rigettato le richieste e disposto che Riina rimanesse in carcere?

Nel rigettare le istanze per il differimento pena per motivi di salute e per la detenzione domiciliare di Totò Riina, il tribunale di Sorveglianza di Bologna nel 2014 aveva ritenuto "insussistente" alcun "vulnus alla tutela del diritto alla salute del condannato".

"Quanto alla pericolosità sociale" - diceva la decisione dei giudici bolognesi - "la caratura criminale" di Riina non consentiva "una prognosi di assenza di pericolo di recidiva ove si consideri la tipologia di reati commessi, non necessariamente implicante prestanza fisica".

Riina si può curare in carcere

La condizione di detenzione di Riina - diceva allora l'ordinanza del collegio della Sorveglianza, emessa a metà giugno 2014 e poi impugnata in Cassazione dalla difesa - non costituiva "alcun ostacolo alla praticabilità degli accertamenti e degli interventi terapeutici reputati necessari dai sanitari, anche in via di emergenza, sia col ricorso al servizio di guardia medica 24 ore su 24".

Questo, "tenuto conto peraltro che il Servizio Sanitario è organizzato in modo uniforme a livello nazionale in termini di protocollo di pronto intervento, con adeguato percorso terapeutico anche nelle situazioni di emergenze cardiologiche".

"Il detenuto - ricordavano infine i giudici - dispone di un servizio di guardia medica 24 ore su 24 e la sezione 41 bis può contare su un medico ad essa dedicato".

Riina e il santuario della mafia

Poi c’è un altro aspetto inquietante da considerare nel far scontare la pena ai domiciliari a quello che fino ad oggi è ancora considerato il boss dei boss: la casa potrebbe diventare un santuario della mafia.

“È giusto assicurare la dignità della morte anche ai criminali, anche a Riina che non ha mai dimostrato pietà per le vittime innocenti - ha dichiarato Rosy Bindi presidente della commissione parlamentare Antimafia - ma per farlo non è necessario trasferirlo altrove, men che meno agli arresti domiciliari, dove andrebbero comunque assicurate eccezionali misure di sicurezza e scongiurato il rischio di trasformare la casa di Riina in un santuario di mafia".

"Dopo terribili stragi e tanto sangue, il più feroce capo di Cosa Nostra è stato assicurato alla giustizia e condannato all'ergastolo - aggiunge Bindi - anche se vecchio e malato, la risposta dello Stato non può essere la sospensione della pena".

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Nadia Francalacci