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Un rene nuovo stampato in 3d

A Pavia una equipe lavora su organi che sono la replica esatta di quelli dei pazienti in attesa di trapianto

N

ella grande vetrina, divisa in scomparti come quelle dei bookshop dei musei, fa bella mostra di sé una specie di gomitolo aggrovigliato rosa e blu la cui targhetta ne chiarisce l’identità: «tratto pancreatico duodenale con sistema circolatorio arterioso e venoso». Accanto, in rosso, bianco e verde pastello, ecco un rene e, colorato con una tinta mattone, un’«emicavità cardiaca» dell’atrio sinistro del cuore.

L’esposizione, in realtà, non ha nulla di splatter. Sono gli organi ricostruiti con una stampante 3D che, in vari materiali (fotopolimeri, ossia resine attivate dalla luce, o polvere di gesso) riproducono esattamente l’anatomia su cui poi il chirurgo interverrà. Perché qui siamo al Policlinico di Pavia, unico ospedale italiano in cui la stampa tridimensionale degli organi che dovranno essere operati è ormai prassi quotidiana. I modellini, precisi in ogni dettaglio e caratteristica all’organo originale, e ricostruiti a partire dalle tac dei malati, servono per fornire informazioni importanti ai chirurghi che dovranno togliere un tumore o fare un trapianto. E per permettere ai pazienti di capire meglio la loro malattia e ciò che verrà fatto.

Questa tecnologia sta rivoluzionando,

per esempio, il trapianto di rene

da donatore vivente, e a raccontarcelo è Andrea Pietrabissa, direttore della Chirurgia generale del Policlinico di Pavia che, dopo cinque minuti di attesa, ci raggiunge davanti alla vetrina: «Bella no? L’ho voluta così, dentro l’ospedale, come i negozi di souvenir degli aeroporti, in modo che la gente veda cosa stiamo facendo, s’incuriosisca,

e si senta anche un po’ coinvolta». 

Nel vostro ospedale la stampante 3D funziona quasi come un «aiuto-chirurgo», come ci siete arrivati? 

È quasi 10 anni che ci lavoriamo su, inquesto settore di ricerca siano «frontline». Quando, una decina di anni fa appunto, sono arrivato al San Matteo, la prima persona che ho conosciuto era un ingegnere, il professor Ferdinando Auricchio, che aveva una sfrenata passione per la stampa 3D. Così abbiamo iniziato a ragionare su potenziali utilizzi in medicina e chirurgia. Altrove il chirurgo fa il chirurgo, l’ingegnere l’ingegnere, noi abbiamo unito discipline diverse. Con me, per esempio, lavorano tre ingegneri donne.

Esattamente che ve ne fate di un rene tridimensionale?

Quello cui stiamo lavorando è una piattaforma 3D che ci permette di pianificare il trapianto di rene di quello specifico paziente, che dovrò fare domani o la prossima settimana. Gli organi sono diversi da persona a persona. Dettagli che in fase operatoria sono importanti, come capire che mi converrà passare qui sotto, per esempio, perché lo spazio è poco... Questo per esempio è un rene sinistro, quello che si toglie quando si fa un trapianto da vivente.

Mostra un rene gelatinoso, semi-trasparente, sotto cui si intravedono filamenti rosa...

È piccolo, sta in un pugno.

Sì, sono piccoli. In genere sono lunghi 12-15 centimetri. Questo è il facsimile di un rene che verrà prelevato da un donatore vivente per un familiare. È fatto di una resina fotopolimerica. Le formazioni rosa che si intravedono sono chiamate piramidi: se lo taglia trova realmente quello che c’è dentro un rene. Vede, ha due arterie invece di una, e già questo pone un problema perché andranno suturate entrambe.

E prima, come si scopriva?

Lo si anticipava in qualche modo

con la tac. Il chirurgo leggeva il referto radiologico del paziente.

E non era abbastanza?

Le tac sono come le fette del salame, lei dalla fetta deve mentalmente ricostruire com’è fatto quel salame, non è così semplice. Invece ora abbiamo tra le mani un oggetto che corrisponde 1 a 1 al rene vero. Tatto e vista si fondono, otteniamo una percezione dei rapporti e delle distanze che altrimenti non avremmo.

Per il paziente, invece, che differenza fa?

Rende gli interventi più veloci e sicuri. Non solo: prendo uno specializzando e gli dico, trapiantami questo rene: portiamo in sala operatoria ossa, muscoli, pelle, tutto ciò che riusciamo a simulare, andiamo dentro con mascherina, guanti sterili, strumenti. Proprio come in un intervento vero, però nessuno si fa male. È come con i piloti. Li facciamo volare subito su un aereo o sarà meglio che prima abbiano fatto qualche migliaio di ore su un simulatore?

Da quanti anni lei taglia e cuce?

Eh... ho iniziato nell’84.

E quanti reni ha maneggiato nella sua vita da chirurgo?

Oltre mille, e ne ho trapiantati molte centinaia.

Come ci si ritrova con un’insufficienza renale che poi porta ad aspettare un organo nuovo?

Ci sono due categorie di pazienti: quelli con un’insufficienza renale cronica, magari per cause congenite, ed è una condizione in fondo favorevole perché ci dà il tempo di trovare all’interno della famiglia un potenziale donatore senza dover entrare in dialisi. Meno si sta in dialisi meglio è anche per l’esito di un futuro trapianto.

E la seconda categoria?

È la più drammatica, dove l’insufficienza renale è la conseguenza di una malattia acuta a cui tutti, anche i giovani, sono esposti. Per cause molteplici, infettive, immunologiche

o semplicemente non conosciute.

I reni possono andare di colpo fuori uso, così?

Sì, uno è in vacanza, tranquillo, un tratto non si sente bene e in ospedale scopre che i reni sono morti. Succede più spesso di quanto si immagini. E in questi casi c’è solo la dialisi, in attesa del trapianto.

Quanto si resiste in dialisi?

Anche per decenni, ma si paga un prezzo alto, la dialisi non fa tutto ciò che fa un rene. Un dializzato di lungo periodo si vede a occhio, ha la pelle cerea perché ha in circolo sostanze che, non filtrate, si depositano nei tessuti. Si ammalano i vasi, le coronarie...

Senza contare le ripercusioni psicologiche.

Nell’anziano un po’ meno perché non incide sulla vita lavorativa. Il dramma vero è fra i 20 e i 50 anni.

Per un rene nuovo ci saranno lunghe liste di attesa...

Dipende da chi è lei. Un tempo, per la lista d’attesa da cadavere, il classico donatore era il 16enne che avevaun incidente in motorino. Oggi, grazie al casco, non è più così. Il donatore è il 70enne morto di emorragia cerebrale, ma la qualità dei suoi  organi è meno buona rispetto a un lontano e non rimpianto passato. Ma il rene del 70enne io non lo do a un giovane di 20  o 30 anni, lo do a un malato di 60.

E al 30enne cosa trapiantate?

Quello è il problema. Il paradosso

è che un 60enne aspetta meno di una

persona di 30 anni. Da qui la necessità di cercare il donatore vivente nell’ambito della famiglia.

Oggi si parla anche di trapianto «samaritano», giusto?

Il samaritano dona in modo altruistico: per lui è giusto farlo perché sa che c’è scarsità di organi. Il suo coinvolgimento è tale che dice: «so che con un rene solo vivo bene lo stesso, e il mio percorso di sofferenza è in fondo contenuto». In Italia il primo è stato nel 2014. Ma si contano sulle dita di una mano: due o tre l’anno a fronte di oltre 70 nel Regno Unito.

Il motivo?

Diciamo che da noi c’è una forte attenzione nel selezionare il donatore samaritano. Deve restare anonimo, lo stesso ricevente non sa da chi viene il rene. Ogni samaritano viene valutato dal Centro nazionale trapianti, da psicologi che ne verificano le motivazioni. Questo esclude chi vuole donare per andare in televisione e dire «guardate che bravo».

Invece il trapianto «incrociato» come funziona?

È un’altra cosa ancora: per massimizzare questo dono così importante, lo si usa come innesco di una catena cross-over: il rene immesso nella catena rompe una serie di incompatibilità che non rendevano possibile il trapianto per più coppie.

In che modo?

Io dono un rene a lei, suo fratello che voleva darle un rene ma non è compatibile lo dà a un’altra paziente, la cui madre che voleva donarlo alla figlia ma non poteva lo dà a un altro paziente e così via. E questi «scambi di coppia» continuano finché si può. Certo, è molto complicato, ci voglio un sacco di esperti, di immunoematologi, c’è un database gestito dal Centro trapianti.

Si vive bene anche con un rene solo?

Certo. Non c’è differenza come aspettiva di vita. Negli Usa, per esempio, se lei ha un’assicurazione sulle malattie, non possono aumentarle il premio solo in base al fatto che ha donato un rene. E non perché siano buoni, ovviamente. Non lo possono fare perché non esiste in letteratura medica nulla che dimostri che chi ha donato un rene vive meno di chi ne ha due, o si ammala di più. È la migliore garanzia che si può dare a un donatore.

E che vita fa chi si è sottoposto al trapianto?

Vive con i farmaci immunosoppressori, i cui effetti collaterali sono, in fondo,  modesti. Passato il primo anno, dove si deve fare più attenzione alle infezioni, lo aspetta una vita normale. Sa quanto costa un dializzato? Centomila euro l’anno di terapie, macchine, trasporto, perdita di ore lavorative. Il trapiantato costa qualche farmaco, niente in confronto. E torna a essere una persona attiva.  

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Daniela Mattalia