Gian Luca Rana: ponti d’oro all’estero, solo intoppi in Italia
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Gian Luca Rana: ponti d’oro all’estero, solo intoppi in Italia

Per costruire un pastificio a Chicago ha impiegato 11 mesi; per fare lo stesso impianto a Verona 7 anni. Gian Luca Rana, sbalordito, racconta come troppe carte, firme e autorizzazioni da noi rischino di azzoppare le imprese.

Sembra ancora incredulo, Gian Luca Rana: «Avevo calcolato che, per andare in produzione a Chicago, sarebbero bastati 3 anni. Mi sbagliavo. Dall’acquisto del terreno all’avvio delle prime linee produttive ci sono voluti appena 11 mesi».

Ecco: Mario Monti e il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, e con loro tutti i politici italiani che oggi stanno provando a sfoltire la burocrazia, dovrebbero studiarsi per bene l’istruttiva vicenda americana del Pastificio Rana di San Giovanni Lupatoto (Verona). Perché l’ultimo passo dell’espansione internazionale dell’azienda si è appena involontariamente trasformato nella più efficace lezione per l’Italia delle mille assurde regole ammazza imprese.

Coincidenza ha voluto infatti che all’inizio dello scorso settembre, proprio mentre iniziavano a girare i motori della nuova fabbrica di Chicago, un piccolo colosso che a regime produrrà 25 mila tonnellate l’anno di pasta fresca e di sughi, sia partito anche il nuovo impianto veronese, nato dal raddoppio dello stabilimento madre (50 mila tonnellate). «Il problema» dice Rana «è che qui, dall’acquisto del terreno al primo tortellino prodotto, abbiamo impiegato 7 anni. E a causare l’ultimo ritardo è stato un intoppo assurdo: il funzionario non aveva l’auto di servizio per compiere l’ultimo sopralluogo. Così abbiamo perso un mese. Gli ho detto: guardi che la veniamo a prendere noi, oppure le mandiamo un taxi, e poi ci sono i mezzi pubblici… Ha risposto: mi spiace, non si può».

Gian Luca Rana non si dà pace. «Io credo nell’Italia» continua a ripetere, come in un mantra. «Altro che America. Qui abbiamo inventiva, flessibilità, capacità di risolvere i problemi. Dovremmo solo liberare le energie». E inevitabilmente pensa a Pat Quinn, il governatore dello stato dell’Illinois, che nell’ottobre 2011 ha voluto incontrarlo per congratularsi: «Aveva appena saputo che volevamo impiantare la nostra fabbrica nel distretto industriale di Bartlett, pochi chilometri a ovest di Chicago. Per lui questo significava investimenti, più circa 200 nuovi posti di lavoro, l’economia che gira... Insomma, era entusiasta. Mi ha detto: “Cosa posso fare per lei?”. Alla mia replica, fra l’imbarazzato e il sorpreso, ha risposto dedicandomi una sua segretaria, con tanto di email, per risolvere qualunque problema».

Problemi con le autorizzazioni? Figurarsi. Cinque firme di numero e il gioco era fatto: permessi, concessioni, tutto. «Non solo» racconta Rana. «Passa qualche giorno e mi avvisano che il board dell’ente pubblico che deve mettere il timbro finale sul mio progetto si riunirà di lì a poco. Allora mi agito, perché in realtà non ho ancora un piano dettagliato dell’impianto. Disperato, domando: come faccio? Mi rispondono serafici che non serve: bastano spazi, idee generali, grandi linee».

Il risultato è disarmante. Per il via libera, a Chicago, sono bastati in tutto 15 giorni. E in Italia? «Qui ogni minimo progetto ha dovuto essere realizzato in 10 copie. Ogni copia, una firma. E poi permessi, timbri... Nessun ente pubblico parlava con gli altri; ci sono state duplicazioni di atti, assurde perdite di tempo. La burocrazia è andata avanti di pari passo con l’acquisto dei terreni, la progettazione, i lavori. Sette anni esatti».

Certo, a Chicago la costruzione della fabbrica è andata avanti 24 ore su 24, di notte alla luce delle fotoelettriche. La corsa è stata una necessità perché il clima invernale lì non aiuta: con 30 gradi sotto zero non si può fare una gettata di cemento. Così tutto è costato un po’ di più. Però ne è valsa la pena: ora dall’Illinois Rana si lancia alla conquista dell’America, un mercato potenziale da 2 miliardi di dollari. Il fatturato previsto nel 2013 è di 100 milioni di dollari, ma potrebbe crescere a 250 già nel 2014: non poco, visto che alla fine di quest’anno il giro d’affari complessivo dell’azienda arriverà a 400 milioni di euro. Il punto scelto per produrre, nel cuore dell’America, è strategico per qualità dei fornitori locali, trasporti, logistica. E per le future espansioni: «Già ci chiamano dal Canada e dal Giappone» rivela Rana «ma anche dall’Australia e perfino da Taiwan».

Intralci burocratici dopo il via ai lavori? Figurarsi. «A Chicago la polizia e i vigili del fuoco venivano spesso a visitare il nostro cantiere» ricorda l’imprenditore. «Ma chiedevano solo se c’era bisogno di aiuto, ci davano consigli sui migliori sistemi di sicurezza».

Quando poi Rana decide d’installare un impianto di filtraggio dell’aria condizionata e un sistema di sicurezza che diano più garanzie rispetto alle norme americane, i tecnici locali si stupiscono. «Chiedono: perché spendere 3 milioni di dollari in più? Ma la nostra filosofia è sempre quella, giustamente prudente, a Verona come ovunque».

Intoppi tecnici? Figurarsi. «A un certo punto ci rendiamo conto che abbiamo fatto male i calcoli e non c’è spazio sufficiente per un silo e una caldaia. Preoccupato, chiamo il solito ente e segnalo: guardate che dobbiamo ampliarci rispetto al previsto». Un bel problema: in Italia si sarebbe bloccato tutto per mesi. Non nell’Illinois: «Al telefono mi rispondono: “No problem, vi diamo sicuramente il via libera. Vi bastano 48 ore per l’autorizzazione scritta?”».

Rana ancora si stupisce. Poi guarda fuori dalla finestra, squadra il grande parallelepipedo d’acciaio dove oggi, finalmente, con 100 addetti in più, viene realizzata metà della produzione europea. Ci ha investito 7 anni della sua vita e 65 milioni di euro. «I sindaci passano» sospira «ma i funzionari restano. Sono statali ipergarantiti. Vivono con tempi del tutto asincroni rispetto alla politica e all’impresa. Aspettano la pensione. Per loro fare bene o non fare è esattamente la stessa cosa. E come si meravigliano, quando tu dici loro: ma guardi che con l’impianto vorrei dare lavoro a 100 persone in più. Rispondono: “E che c’entro io?”».

Oggi Rana ha quasi 1.200 dipendenti. Erano 583 nel 2005. «Sette anni fa» dice serio «avremmo potuto decidere di costruire questa nuova fabbrica in Polonia. Ma io dall’Italia non me ne vado nemmeno a cannonate. Questo è il Paese che ci ha fatto crescere e ci ha dato tanto. Però piange il cuore a pensare alle potenzialità sprecate, mortificate».

Infine torna a sorridere, ma amaro. «In America un tassista, immigrato dall’Etiopia, mi ha raccontato di essere riuscito a mettere su in pochi anni una piccola società di trasporti, con tre vetture e un piccolo bus. Ha confessato che all’inizio aveva pensato di venire in Italia. Poi ha cambiato idea. Si è spiegato con una grande verità. Ha detto: “Da voi, per fare fortuna, bisogna essere furbi. Qui negli Stati Uniti basta lavorare tanto”».

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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