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(Ansa)
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«Per aiutare i ragazzi dobbiamo capire che esserlo non è una malattia»

Roberto Latella, educatore e sociologo, interviene sul dibattito legato alle problematiche delle nuove generazioni, tra ansie normali e gratuite

“C’è una cosa che mi colpisce. Oggi i ragazzi si definiscono adolescenti. Prima si definivano giovani. Preferiscono identificarsi utilizzando una parola tecnica. Questo, secondo me, non è un buon segnale. E’ come se noi avessimo patologizzato questa fase dell’età evolutiva, come se essere adolescenti fosse una malattia”.

Roberto Latella è un educatore, un sociologo, un formatore ed è un counselor esperto di lavoro sociale ed educativo. Rimane colpito dai ragazzi e sostiene che spesso si parla di adolescenza solo quando ci sono problemi. “Credo che dovremmo avere la capacità di vedere anche le cose belle fatte dagli adolescenti di questo Paese. E’ pieno di ragazzi che fanno volontariato, che fanno il servizio civile, che partecipano ad attività di scautismo o, in generale, che fanno attività di partecipazione sociale. Dovremmo vedere anche l’altra faccia della medaglia, altrimenti il rischio è che i ragazzi percepiscano la loro età come un problema. Questa età ha anche degli slanci eccezionali. E noi, come società adulta, rischiamo di non vederli abbastanza. Ecco perché rischiamo di restituire ai giovani un’immagine distorta degli stessi quasi come fossero un problema viaggiante”.

Come vivono la vita gli adolescenti?

«I ragazzi non sono un problema viaggiante, ma hanno molte fatiche e, in questo periodo specialmente, hanno molte ansie e pressioni di performance. Però, hanno anche un sacco di cose belle da raccontare».

Quali sono le ansie e le pressioni di performance che vivono i giovani di oggi rispetto a quelli del passato?

«In ogni epoca, i giovani hanno sempre avuto pressioni di performance. A cominciare dalla scuola, poi quando inizia il lavoro, dal gruppo dei pari. Diciamo che oggi, probabilmente è più pervasiva questa dimensione della performance anche grazie ai social. Nel senso che i ragazzi non sono mai liberi da una dimensione di comparazione. Per esempio, la conta dei likes e followers sui post».

E la scuola?

«Anche la scuola continua a chiedere agli adolescenti molto in termini di performance, a vederli poco per quello che sono e più per quello che dovrebbero essere. Questo produce ansia. Infatti, abbiamo giovani che vivono la tematica dell’ansia e della crisi di panico. Se noi adulti, genitori, e penso anche ai media, sapessimo riconoscerli anche nelle cose belle che fanno, beh probabilmente ci sarebbe un equilibrio migliore. Al momento c’è uno squilibrio».

Come sono cambiati i genitori nei confronti dei figli?

«Prima esisteva un modello genitoriale riconosciuto e non per forza giusto, perché per alcuni versi faceva acqua, però era uguale un po’ per tutti. Quindi, un genitore aveva più o meno chiara l’idea che avrebbe fatto il genitore proprio come sua mamma o suo papà, sua nonna o la vicina di casa. Oggi, invece, c’è una molteplicità di modelli ed è difficile scegliere. In più, c’è questo tema della tecnologia a cui i genitori si appoggiano un po’ troppo, indotti anche dalla società dei consumi».

Qual è l’errore più diffuso che i genitori commettono con i figli?

«Beh, oggi capita di vedere bambini ancora in carrozzina con in mano un cellulare. Questa, credo sia una cosa terribile e pericolosissima. A quei genitori direi che il cellulare fa male più di uno schiaffo dato a quell’età».

A che età bisognerebbe dare un cellulare al proprio figlio?

«In astratto è difficile dirlo perché mi verrebbe di portarlo il più avanti possibile. Nel contesto in cui siamo, dico: in prima media. Io credo che cellulari alle elementari siano una grandissima forzatura e tra l’altro non esistono strumenti per governare una cosa che può facilmente produrre dipendenza. Purtroppo, si vedono molti bambini che alle elementari hanno già un cellulare in mano e che lo usano anche con grande libertà. Tra l’altro, viene meno l’attesa, la noia. I nostri bambini e ragazzi dovrebbero annoiarsi di più perché è dalla noia che nasce la creatività, l’invenzione».

Cosa pensa del genitore amico?

«Beh, il genitore non è un amico, quindi basta dire questo. Però non vuol dire che il genitore non debba ascoltare, non possa sbagliare, non possa chiedere scusa e dire grazie. E’ importante che la relazione sia asimmetrica e lo deve essere per forza come anche quella con l’insegnante. E quindi, il genitore amico non ha senso, è come non prendersi la responsabilità del proprio ruolo. Il genitore in ascolto, il genitore morbido, affettivo, reciproco è un modello ed è importante metterlo in pratica. Per farlo, non bisogna essere amici».

Cosa direbbe ai docenti?

«Direi di essere in ascolto con i ragazzi. I comportamenti comunicano sempre qualcosa e se ci fermiamo al comportamento senza andare oltre, allora è come vedere il dito e non vedere la luna. Tutto questo non è semplice metterlo in pratica perché i docenti lavorano con classi troppo numerose e in condizioni difficili. Però, un educatore, dovrebbe essere innanzitutto in ascolto ed essere capace di leggere cosa c’è dietro ai comportamenti. Purtroppo, non sempre la scuola riesce a farlo».

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Rosita Stella Brienza