Prato, in ostaggio del "Dragone"
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Prato, in ostaggio del "Dragone"

Nonostante arresti e Polizia la comunità cinese ormai ha cambiato il tessuto culturale e sociale della città toscana

Dopo le retate, la pax mafiosa è finita e i vecchi boss si riprendendo Prato, grazie anche ad alleanze inquietanti. Prendiamo la storia di Lin Cai Wang. Corpulento e alto un metro e 90, si rasava completamente il cranio. Per questo era soprannominato «Hesan», il Monaco. Stava nel tinello di casa sua, nel cuore della Chinatown cittadina, quando, nel 2009, i carabinieri gli hanno messo le manette. Dieci anni dopo, scontata la pena, è tornato ai suoi affari. Allora la guerra che il Monaco combatteva per il monopolio dello spaccio di droga, del gioco d’azzardo e della prostituzione, dopo il suo arresto, era sfociata in una mattanza. Il 17 giugno 2010 due ragazzi cinesi furono fatti letteralmente a pezzi a colpi di mannaia, in pieno giorno, in una rosticceria di via Strozzi.

Eppure per il Monaco è passato il tempo ma non il vizio. E così è tornato in carcere. I poliziotti della sezione Criminalità straniera dalla Squadra mobile di Prato l’11 luglio scorso l’hanno arrestato ancora per sfruttamento della prostituzione. Il blitz della polizia in sei hotel di Prato oggi racconta vizi e corruzione dell’anima orientale della città toscana. Escort asiatiche, arrivate in Italia col visto turistico, erano a disposizione di ricchi cinesi che pagavano 500 euro a notte per festini a basse di sesso e droga. Dell’organizzazione farebbe parte anche un pezzo grosso della criminalità, Lin Xia, detto Lucas. I pubblici ministeri Lorenzo Gestri e Gianpaolo Mocetti sospettano che fosse il punto di contatto tra malavita cinese e alcuni carabinieri corrotti.

Era già successo, a Prato, che i poliziotti dovessero arrestare i propri colleghi. Per gli investigatori Lucas è coinvolto anche in una sparatoria tra clan rivali avvenuta in mezzo ai passanti ai giardini pubblici. Giocava al fare boss, Lucas, che ha nominato come difensore di fiducia l’avvocato Luca Cianferoni, il legale di Totò Riina. Il Monaco e Lucas però sono criminali dal coltello facile e dalle visioni ristrette. I veri boss non hanno interesse a dimostrare il loro potere con le mannaie. I padrini sanno mediare, sono maestri del brokeraggio e gestiscono un capitalismo criminale grazie anche alla collaborazione di professionisti italiani, commercialisti e consulenti del lavoro, che costituiscono quella zona grigia che di Prato, nelle parole del procuratore Giuseppe Nicolosi, fa «una palude». Colletti bianchi che agevolano un’economia parallela a quella legale che condiziona il mercato e, a lungo andare, lo stesso tessuto sociale. La crisi, la pressione fiscale e le difficoltà burocratiche hanno permesso che questa arrembante forma di capitalismo attecchisse sulle fragilità del sistema produttivo.

Tra gli imprenditori locali c’è chi resiste, chi soccombe e chi cerca nella sponda criminale un appiglio per sopravvivere, divenendo talvolta complice. Chi comanda davvero la malavita cinese a Prato gestisce colossali traffici che pompano denaro liquido da reinvestire in attività apparentemente legali. Talvolta, come ha svelato la colossale inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze con l’operazione «China Truck» del 2018, le due economie si intrecciano e si alimentano. In manette, con decine di connazionali, era finito il presunto capo della triade italiana, Zhang Naizhong. Chiamato dalle sue vittime l’Uomo nero, per gli inquirenti era «il capo dei capi» che da Prato comandava su mezza Europa. Il Tribunale del riesame prima, e la Cassazione poi, hanno cancellato l’accusa di mafia. In attesa del processo a 85 indagati che partirà a breve, anche l’Uomo nero, scaduti i termini della custodia cautelare, è tornato un cittadino libero.

Le accuse contro la sua organizzazione però sono paradigmatiche della capacità di diversificare gli interessi, anche criminali, dei clan cinesi. Si va dal trasporto merci, al traffico internazionale di rifiuti, al mercato della contraffazione, alla gestione di sale giochi e centri benessere. Poi c’è il racket delle estorsioni, con annessi incendi di magazzini e supermercati (l’ultimo, a fine agosto, a Monsummano Terme, con decine di famiglie evacuate ma nessun ferito: era solo un avvertimento). Senza dimenticare il core business di tutte le triadi che operano in Italia in stretta collaborazione con la Cina: l’organizzazione e lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Un’inchiesta della Guardia di finanza, la «Money to money», ha calcolato in quattro miliardi di euro il denaro in nero che da Prato prendeva la via della Cina attraverso i money transfer e la complicità di Bank of China. Dopo gli arresti e un processo con centinaia di imputati dilatato fino all’inverosimile per difficoltà burocratiche e di traduzione degli atti (e azzerato dalla prescrizione), quel fiume carsico di valuta che veniva generato a Prato ma finiva all’estero si è prosciugato. Oggi i soldi viaggiano direttamente nei container o, come sospettano gli inquirenti, vengono riciclati grazie alla criminalità organizzata di stampo mafioso italiana che ha messo a disposizione di alcuni imprenditori cinesi la propria, collaudata, rete.

Intanto sempre più attività commerciali passano di mano e vengono acquistate da orientali. Un terzo degli alberghi della città, anche di lusso, ha cambiato proprietari e nazionalità. Dopo le confezioni e le tintorie, dopo i parrucchieri e gli estetisti e i ristoranti, l’avanzata cinese ha conquistato i bar, dalla periferia fino al centro. L’ultimo a essere ceduto è lo storico bar Magnolfi, aperto nel 1926, famoso per le sue ciambelle e i clienti vip, da Roberto Benigni a Francesco Nuti. Era in vendita da tempo e nessun italiano si è fatto avanti. Finché è arrivato Weng Yu, classe 1990, che aveva già rilevato la famosa pasticceria Orgiu.

Stesso destino è toccato al centralissimo bar Andrei, cent’anni di storia. Il titolare, Bruno Rosi, racconta: «Un giorno nel locale si sono presentati due ragazzi d’origine cinese che mi hanno fatto una proposta di acquisto. Ci abbiamo pensato e deciso di vendere. Di italiani a chiedere informazioni per acquistare il bar non se n’è visto nemmeno mezzo». Già nel 2010 Edoardo Nesi scriveva nel libro Storia della mia gente: «Quando vendi un’azienda vendi anche la sua storia». E qui in gioco c’è la storia di Prato, ostaggio di una mutazione demografica ed economica di cui qualcuno sa approfittare, ma nessuno sa gestire.

Il procuratore Nicolosi, lo dice tra il serio e il faceto: «Qui siamo come a Fort Alamo. La nostra è una procura di frontiera, non abbiamo il mare ma abbiamo un mare di cinesi». Perché nella valle del Bisenzio, il piccolo fiume che attraversa la città, gli immigrati clandestini non arrivano sui barconi ma in aereo. Si chiamava Hang Ke Yuek il primo cinese residente a Prato; era il 1968. L’ultimo censimento del Comune conta 23.647 cinesi iscritti all’anagrafe (gli italiani sono 153 mila), in costante aumento. A cui vanno aggiunti migliaia di irregolari.

Oggi Marco Wong e Teresa Lin siedono in consiglio comunale. Ingegnere elettronico con un passato da vice presidente di Huawei Italia, Wong per la sua campagna elettorale ha scelto uno slogan profetico: «La preferenza al futuro di Prato». Da imprenditore ha toccato con mano la presenza dei clan cinesi: «Ho ricevuto minacce telefoniche da qualcuno che voleva che pagassi il pizzo, ma sono andato subito in questura a sporgere denuncia. Esiste un gravissimo problema sociale. La manovalanza criminale è frutto della mancata integrazione e dell’abbandono della scuola dei ragazzi cinesi che formano prima delle baby gang e poi delle vere e proprie bande criminali».

Sul fronte della lotta all’illegalità però Wong è ottimista: «È vero che c’è ancora una diffusa ignoranza delle regole, ma la situazione sta migliorando, grazie ai controlli nelle aziende e perché gli imprenditori più giovani vedono il proprio futuro in Italia e si uniformano al sistema legale». I dati sembrano dargli ragione: dopo il rogo del 2013 della ditta Teresa moda, nel quale morirono carbonizzati sette operai che dormivano in fabbrica, la Regione Toscana ha avviato un piano straordinario di controlli interforze nelle aziende cinesi. Le imprese regolari erano appena il 6 per cento del totale. Nel 2017 erano arrivate al 56 per cento.

Oggi a Prato, secondo i dati di Camera di commercio, ci sono 6.288 imprese con titolare cinese (le italiane sono 28.590). Ma sono quasi tutte imprese individuali, facili da chiudere e riaprire, e infatti il tasso di mortalità è precoce: il 35 per cento chiude entro i tre anni di vita. Un chiaro segnale di allarme, denuncia Luca Giusti, presidente della Camera di commercio di Prato: «Questa volatilità delle società induce a pensare che queste imprese restino aperte il tempo necessario per massimizzare i guadagni prima che arrivino i controlli di legge, riuscendo senza conseguenze a evadere le tasse, il versamento dell’Iva e dei contributi previdenziali e aggirando le leggi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro».

L’Irpet, l’istituto regionale per la programmazione economica della Toscana, ha stimato che il 22 per cento del Pil pratese sia cinese e che le imprese orientali in città valgano miliardi di euro. Prato è, in percentuale, la prima provincia italiana con imprese a conduzione straniera. I numeri affermano che a Prato l’economia dipenda della Cina, ma per il presidente della Camera di Commercio i dati vanno letti diversamente: «Qual è la reale ricaduta economica sul territorio? Le aziende cinesi acquistano e rivendono “estero su estero”, non è che se spariscono i cinesi Prato va in crisi. Piuttosto la presenza di attività cinesi sul territorio deve essere una risorsa, una opportunità per tutti, nel rispetto delle regole, altrimenti diventa concorrenza sleale». Un tema all’ordine del giorno.

Il procuratore Nicolosi rivela che su circa mille procedimenti l’anno per violazioni delle normative sulla sicurezza sul lavoro, almeno novecento sono a carico di imprenditori cinesi. In procura, ogni giorno, si firmano procedimenti, indagini e sequestri a carico di cittadini cinesi. «Ma affrontiamo molte difficoltà, l’organico dei magistrati e del personale è insufficiente, l’evidenza di rapporti tra il mondo legale e la criminalità organizzata emerge costantemente dalle indagini, mentre le nostre richieste alle autorità diplomatiche cinesi vengono ignorate». Un po’ come un fortino, Prato resiste come può alle cariche. Nessun segnale, però, di un arrivo della cavalleria. Non lontano da Prato un magistrato antimafia che i cinesi li conosce bene afferma sconsolato: «Della mafia cinese non importa nulla a nessuno».

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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